La colpa di Andrea? Aver fatto bene il suo lavoro. L’editoriale di Telese sul caso D’Aurelio

1 Ottobre 2025

Per noi giornalisti nulla cambia. Quindi minacciate, gridate, urlate pure. Non sarà soltanto faticoso, per voi. Sarà perfettamente inutile

SULMONA. “Ti scanniamo! Ti scanniamo!”. Ed è così, con queste urla belluine, che ieri è finito nel mirino il nostro Andrea D’Aurelio: da anni collaboratore del Centro, cronista preciso e meticoloso. La sua colpa? Semplice: avervi raccontato, ancora una volta, una notizia.

Se volete immaginare meglio questa scena folle, dunque, leggetevi la cronaca dell’orrore da Sulmona che pubblichiamo in queste pagine. Ingiurie, urla, minacce. Non ci trovavamo nel leggendario Bronx (che oggi è quasi un quartiere residenziale) e nemmeno in un qualche quartiere di camorra, a Gomorra, ma in un tribunale della Repubblica: in questo luogo apparentemente sacro, la famiglia di Francesco Campellone –- un indagato che è stato ritrovato con pacchi di stupefacenti e contanti – accerchia il nostro Andrea, lo minaccia, lo ricopre delle invettive che abbiamo appena citato. Una madre, una moglie e i familiari più stretti, che vestono i panni di moderni e presunti vendicatori. La colpa del nostro Andrea? Sempre la stessa. Aver fatto il suo lavoro di cronista.

Attenzione, adesso: i lettori ricorderanno come pochi giorni fa ad essere minacciato era stato un altro redattore del nostro giornale, Gianluca Lettieri. Anche per lui insulti (soprattutto online), striscioni davanti a casa, e l’indirizzo di residenza pubblicato in rete, come per invitare qualcuno ad andare a fargli un salutino. Anche per Gianluca una unica colpa: aver dato la notizia scomoda di una indagine sulla holding che controlla la società di calcio della squadra cittadina, il Chieti.

Dopo un doppio attacco a Gianluca le minacce si erano allargate a tutto giornale, con qualcuno che vagheggiava “una Charlie Hebdo” (cioè una strage in redazione, magari su modello islamista). Follie stravaganti, si dirà. Mitomanie immaginifiche, magari, ma inoffensive, ci dicono quelli che sono certi di saperla lunga: intanto, però, Gianluca è sottoposto dalle forze dell’ordine a tutela rafforzata, e Andrea dovrà sporgere denuncia. Questo dopo essere stato scortato dai carabinieri perché uscisse da un ingresso posteriore del tribunale, con nelle orecchie quelle paroline dolci: “Non esci vivo!”. Saremo matti noi?

Qui occorre fare una riflessione: nel tempo dei social, degli influencer e dei predicatori mediatici a caccia di followers, il mestiere del giornalista sembra stia diventando più pericoloso che in passato, soprattutto per chi lo fa alla vecchia maniera, consumando le sue suole. Io ho una mia idea: in questo mondo dominato del virtuale, del digitale, dei labirinti di specchi e degli Avatar usati come coperture e rifugio, il vecchio giornalismo suola-e-scarpe è rimasto ancorato alla realtà, come ad un bene rifugio. Questa realtà oggi fa più male di prima: in rete ti puoi fare un lifting digitale (magari costosissimo) pagando qualcuno per ripulire le tue tracce dal web. In tribunale puoi battere i pugni invocando il diritto all’oblio. Ma quando noi mettiamo le notizie nero su bianco su queste pagine, non si scherza più: tutti sono posti di fronte alle loro responsabilità.

Ecco cosa caratterizza il nostro lavoro, qui – al Centro – non siamo effimeri. Non è un gioco, questo prodotto che talvolta vi macchia i polpastrelli con un velo di colore scuro. È nell’inchiostro la matrice del tempo, è nella cronaca la spina dorsale del racconto contemporaneo. «Un giornalista può rinunciare a tutto, ma non alla sua firma», ci ricorda sempre il nostro collega Francesco Merlo.

E lo dice perché il nome e il cognome, per chi scrive, non sono un apparato di vanità (come pensano molti) ma piuttosto il codice identificativo di un individuo che si assume una responsabilità collettiva al servizio di chi legge. Il nome è la nostra firma di uomini che lavorano per conto degli altri, anche quando loro non lo sanno: le notizie che scriviamo diventano ogni giorno l’alfabeto dei nostri lettori, il carburante primario di vite che spesso noi non conosciamo. Questo è il lavoro di Andrea, di Gianluca, di tutti noi: un lavoro che si può fare solo con senso di responsabilità. Tutti gli altri corpi intermedi sembrano sgretolati. Nelle città incandescenti, sul campo, sono rimasti i giornalisti, le forze dell’ordine, i professori e i preti di strada: ma per noi nulla cambia. Quindi minacciate, gridate, urlate pure. Non sarà solo faticoso, per voi. Sarà inutile.

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