«La violenza sulle donne è come la lotta alla mafia, e chi uccide è un debole»: l’inchiesta in tv stasera con “31 minuti”

Intervista al procuratore aggiunto Anna Rita Mantini: «Fenomeno dilagante». Una vita in prima linea: «Non mi sento sola, avverto la responsabilità di difendere»
PESCARA . «Il fenomeno della violenza sulle donne è così ingravescente che è quasi paragonabile alla lotta alla mafia». Lo dice Anna Rita Mantini, procuratore aggiunto di Pescara, durante un’intervista a “31 minuti”, settimanale di approfondimento di Rete8 in collaborazione con il Centro che va in onda questa sera alle ore 22.30. “Per mano di un uomo”, è il titolo della puntata dedicata alla violenza sulle donne e ai casi di femminicidio, come l’ultimo di tanti che porta a Lettomanoppello. Lì, il 9 ottobre scorso, è stata uccisa Cleria Mancini, 65 anni: l’ex marito le ha sparato un colpo di pistola al cuore mentre stava passeggiando con il nipotino.
Dottoressa Mantini, lei è una donna che combatte per le altre donne: cosa prova di fronte ai casi di violenza sulle donne?
«Sono un magistrato, quindi sono un tecnico, ma questa è una materia che coinvolge moltissimo. Da anni, un obiettivo del mio ufficio è dare una grande priorità a questa, come l’ha chiamata lei, lotta: è una battaglia. E la parola lotta non è casuale perché i giuristi ritengono che il fenomeno sia così ingravescente che è quasi paragonabile alla lotta alla mafia. Abbiamo dei numeri che ci inducono a una riflessione profonda. Quindi, il sentimento che abbiamo io e i colleghi che fanno parte di questo gruppo di specializzazione del mio ufficio è un impegno massimo e continuo: su di noi grava la grande responsabilità di poter fornire una risposta sufficientemente adeguata a un fenomeno che ovviamente è dilagante. Ed è un senso, a volte, anche di insufficienza o di inadeguatezza che ci coglie tutte le volte in cui, per esempio, dopo un grande lavoro di squadra, poi, a processo, una donna alla fine ritratta una dichiarazione resa in precedenza. Però questo senso di inadeguatezza va bilanciato con il grande desiderio di voler fare meglio e di utilizzare al meglio gli strumenti del legislatore».
In aula, quando lei sostiene l’accusa, si sente sola davanti al giudice o sente l’appoggio delle altre donne che la sostengono?
«Sì, il senso di solitudine non mi ha mai raggiunto. Al contrario, il pensiero continuo alla responsabilità, che è questo bellissimo lavoro del magistrato che ormai tanti anni fa ho scelto, mi consente di poter praticare le norme e gli strumenti giudirici che sono tanti, ma vanno ovviamente esercitati con la massima specializzazione. Sento il bisogno di tante donne di poter riaffermare quelli che sono dei diritti fondamentali, diritti oggi non soltanto nominati dal nostro codice, ma anche ancora prima dalle fonti sovranazionali, di poterli vedere affermati anche nelle sentenze, quindi nelle decisioni giudiziarie. Sento un senso forte dell’impegno che ci muove tutti anche ad un lavoro continuo e incessante, oltre gli orari, perché chiaramente c’è un tempo continuo che è quello dell’emergenza che stiamo vivendo per questo grande problema, che è la violenza domestica, la violenza che deriva dall’abuso delle relazioni sentimentali, affettive, di coabitazione, la violenza sui minori, che da ultimo è un fenomeno veramente terribile, perché i minori non soltanto subiscono stesse volentieri una violenza diciamo per fatti gravissimi, sessuali e quant'altro, ma vivono la violenza casalinga assistendo alla violenza contro le donne, non a caso una forma gravata di maltrattamento, è proprio il maltrattamento effettuato in presenza dei minori, che è una condotta ancora più grave».
Se non fosse procuratore, ma legislatore, cosa cambierebbe, se cambierebbe qualcosa della legge sul femminicidio?
«La legge sul femminicidio è un passo in avanti, perché è sicuramente una norma che diciamo così traduce in maniera simbolica la necessità di dover dare una connotazione specifica alla morte di una donna per mano di un uomo: il femminicidio è una condotta che è praticata da un uomo su una donna in quanto tale, quindi l’averlo affermato, scritto in una norma per la prima volta, pone sicuramente un grande punto fermo in quello che è un percorso normativo molto importante. Però, secondo me ci sono altri passi in avanti da chiedere al legislatore: per esempio mi viene in mente il fatto che si è invocato da più parti un delitto di violenza domestica, che non sia il maltrattamento in famiglia, perché la condotta di maltrattamento, parliamo in maniera tecnica, presuppone una pluralità di condotte abituali che devono raggiungere un minimum per poter essere penalmente sanzionate. Spesso e volentieri non ci riusciamo, perché magari alcune condotte sono sporadiche, pur gravissime, ma non ci sono le querele. Ecco, magari una condotta specifica di violenza domestica che sia in grado di sanzionare quei frammenti di condotta che invece, per esempio, non possiamo reprimere con gli attuali principali delitti del Codice rosso, che sono il delitto di stalking, il delitto di maltrattamento, il delitto di revenge porn, di convivenza in senso lato. Quindi, il legislatore ha ancora tante cose da fare, oltre che ovviamente una serie di strumenti anche mirati alla prevenzione di questi illeciti, perché ovviamente la procura arriva alla fine del percorso, arriva quando la condotta è stata consumata o anche semplicemente contestata, ma noi vediamo che ci sono tantissimi campanelli di allarme, tantissimi segnali che spesso non riusciamo ad accogliere adeguatamente in maniera tempestiva».
Di fronte ai casi di femminicidio, a prescindere dalle indagini, lei se lo chiede perché?
«Me lo sono chiesto tante volte. Per esempio, immagini un femminicidio che accade di fronte a una coppia in crisi: ma perché non ti separi semplicemente e vai via? Ma la spiegazione che è sociologica, secondo me deve essere condotta sempre a questa relazione di potere dell’uomo sulla donna, con una relazione storica che ha radici profonde, che ovviamente piano piano stiamo emancipando, una relazione appunto di questo tipo, disfunzionale e malata, che fa sì che l’uomo venga nel momento in cui viene a sgretolarsi questa condizione di sopraffazione, di potere sulla donna, perde una sorta di propria identità e quindi reagisce con l’atto violento, nelle varie gradazioni della violenza fino a quell’estremo. Dico questo perché in alcuni casi è del tutto irragionevole che sia inquadrato come un atto di impulso e di impeto. Io non cadrei in questa semplificazione. Direi che non c’è mai, quasi mai, un atto di impeto emozionale. Quando nelle sentenze leggiamo delle motivazioni giustificazioniste, questo secondo me è un’involuzione del percorso anche tecnico, anche giuridico: nella gran parte dei casi dove dobbiamo porci il problema socio-culturale, storico, accadono delle cose terrificanti proprio perché questo rapporto di supremazia comincia a sfaldarsi, la donna comincia a liberarsi dalle forme di controllo, comincia a dire no».
Quando incrocia lo sguardo di una donna vittima di violenza, lei in quegli occhi cosa ci vede?
«Ci vedo già una grande volontà di affidamento alle istituzioni e quindi è una prima battaglia vinta, un piccolo pezzo di strada fatta, perché vuol dire che una donna è uscita dal chiuso della propria casa. Quella casa, diciamo spesso e volentieri, che abbiamo visto durante il Covid era appunto diventata una prigione. Quindi, ci vedo una richiesta anche di aiuto, di avvio di un percorso istituzionale e quindi una rivendicazione di credibilità delle istituzioni. È chiaro che la donna va poi aiutata in questo percorso: noi diciamo sempre non è sufficiente la denuncia, la strada è lunga fino al processo. La donna va sostenuta da un punto di vista psicologico, economico e da tutte le altre realtà che dovrebbero sul territorio avere questa funzione. Noi ci abbiamo provato un po’, facendo l’esperimento del Gav, dove ci sono psicologi, avvocati, professionisti che donano la propria professionalità in maniera gratuita appunto, per poter dare alle donne questo supporto».
E questo basta?
«Non sempre questo supporto è sufficiente perché la donna poi giunga fino alla fine, cioè riaffermi la propria verità al processo, perché ovviamente è il processo di parti contrapposte che poi porta ad una pronuncia definitiva che è la sentenza».
Negli occhi invece di chi uccide e di chi maltratta, lei cosa ci vede?
«Nei casi più semplici, nel senso che laddove il colpevole, l’autore del fatto, viene individuato immediatamente, troviamo anche una forma di, non dico di pentimento, ma di autogiustificazione. Spesso e volentieri, chi agisce in maniera più violenta, cerca sempre di trovare una motivazione al proprio gesto e quindi in fondo noi, tutti gli operatori di diritto, vediamo una forma di debolezza, debolezza massima: la risposta violenta è la risposta di chi non è in grado di usare le parole, altri linguaggi, non è in grado anche di porsi in una relazione di parità con l’altra parte».
Da donna che combatte la violenza, un sogno ce l’ha?
«Tra le tante cose che vorrei, vorrei poter augurare alle donne di ogni età di praticare ogni luogo con sicurezza e non aver mai il pensiero recondito e sotterraneo della paura di camminare per strada, di uscire liberamente senza doversi guardare indietro, di pensare che il mondo è ancora un posto bello in cui vivere. Se le donne si emancipano dalla paura vuol dire che tutte le istituzioni hanno lavorato bene».

