L’intervista del direttore Telese a Cesare Ramadori, dirigente di Strada dei Parchi: «A24 e A25 sicure: noi a testa alta dopo un lungo calvario»

30 Ottobre 2025

Sei processi e sei assoluzioni per l’ingegnere: «Dannoso allarmismo per anni, generati sospetti infondati»

Ingegner Ramadori, come si sente dopo l’ultima assoluzione?

(Cesare Ramadori sgrana gli occhi, poi sfodera un sorriso vagamente zen e infine un sospirone).

«Mi sento come si può sentire un manager che ha sostenuto sei processi ed è stato assolto per sei volte. Lei che dice?».

Quindi bene?

«Non bene, benissimo. Però…».

Però?

«Non posso certo dimenticare cosa ha rappresentato per la nostra società, e ovviamente anche per noi dirigenti, questa vicenda».

Sul piano processuale, intende?

«Certo. Ma persino sul piano umano e privato: abbiamo vissuto un calvario giudiziario, ne siamo usciti puliti. Immacolati. Lo scriva».

Prima però i fatti. La sentenza di cui parliamo – spiego per i lettori – è quella nel processo del Gran Sasso. Eravate accusati di aver inquinato acque sotterranee nel traforo di cui siete gestori in virtù della concessione di Strada dei Parchi.

«In questi sei processi è stata la sentenza – per ora le basti questo – più sofferta: non perché non fossi certo che ce l’avremmo fatta. Ma perché era più difficile da dimostrare sul piano tecnico, data la complessità della materia e delle normative ambientali».

Mi faccia un esempio.

«Vuole ridere?».

Non mi dispiacerebbe.

«Nel mio ufficio di Roma c’è ancora – non ho fatto in tempo a mettere ordine – una scrivania sommersa da una montagna di faldoni. Piramidi di carta. Alle spalle di questo archivio a cielo aperto, tra chili di atti e perizie, ci sono due grandi lavagne con il riassunto concettuale del nostro percorso difensivo e con i collegamenti in stile true-crime».

Quelli con cui nei gialli si dà la caccia i colpevoli.

«Beh, noi – invece – eravamo alla “caccia” delle prove inconfutabili della nostra innocenza. E le abbiamo portate in tribunale».

Mi spiega perché, se era così sicuro, considerava il processo come il più difficile? Non è contraddittorio?

«Affatto. Lo era per via delle regole di ingaggio».

Quali?

«Parliamo di un procedimento nel quale i pubblici ministeri, bypassando l’udienza preliminare, la legge glielo consentiva, sono andati direttamente a processo».

Aumentava il rischio, vuol dire?

«Certo. Era come infilarsi in una battaglia aerea senza avere il paracadute. Potevamo uscire da questa storia solo con una sentenza di assoluzione piena: così è stato».

Oggi aspetta il dispositivo della sentenza perché ha delle recriminazioni?

«No, per brindare a champagne. Malgrado io sia un ingegnere, e quindi tendenzialmente austero: brindo perché non ho mai dubitato che la verità avrebbe prevalso».

E come spiega i sei processi, allora?

«Sul perché dei processi dovrebbe chiedere ai pm. Per il resto temo che più che una intervista le servirebbe pubblicare un libro».

Proviamoci.

Cesare Ramadori, 85 anni. Per lungo tempo amministratore delegato di Strada dei Parchi, la società del gruppo Toto che gestisce le concessioni Autostradali della A24 e dell’A25: ovvero le porte di casa dell’Abruzzo, il cordone ombelicale tra Adriatico e Tirreno. È stato lui il grande accusato dei famosi sei processi, che riguardavano un episodio di paventato inquinamento idrico e la sicurezza dei viadotti. Ramadori mi accoglie in una saletta della società, mi sommerge di dati, di verbali, documenti processuali. Mentre parla stringe con le mani le cartelline piene di documenti, ma senza mai leggere: li cita a tratti, quasi li solfeggia, come i sacerdoti con gli atti degli apostoli durante le omelie. A memoria.

Da dove inizia questa storia, e perché lei lo definisce “Calvario giudiziario”?

«Perché questo è stato per noi. Tutto inizia nell’agosto 2018: crolla il Morandi a Genova, ma dopo pochi giorni l’attenzione mediatica viene spostata dai giornali sulle nostre concessioni».

Secondo lei perché?

«Ah, bella domanda: ci accusano in vario modo – nei primi cinque processi – di aver messo a rischio la sicurezza degli automobilisti».

E perché si arrabbia?

«Senta, sono nato ingegnere, morirò ingegnere, sono nel Gruppo Toto dal 1980, queste autostrade non sono un lavoro, ma la storia della mia vita. La sola idea che fossimo indagati per dei reati così odiosi mi indignava».

Due dei processi erano a Teramo: viadotti a rischio e acque inquinate.

«Sì, ma siamo stati indagati anche a L’Aquila, Pescara, Sulmona e Avezzano. Il che ora, con il senno di poi, mi rende più felice».

Dice?

«Le pare possibile che tutte queste corti fossero a nostro favore? Ne siamo usciti con fatti, prove e sentenze inoppugnabili».

E quindi?

«La constatazione che su di noi non si è trovato nulla. Perché nulla c’era da trovare. Nulla, capisce?».

Mancata manutenzione ordinaria e attentato all’incolumità dei trasporti. Accuse gravissime. Finite nel nulla.

«Sa come siamo precipitati in questa storia, una mattina?».

Me lo racconti lei.

«Con il sequestro di tutti i nostri conti correnti privati. Il mio e quello degli altri manager».

Quale fu la sua prima reazione? Rabbia?

«No, incredulità. Le carte di credito non funzionavano, il bancomat era come morto. E in banca, all’inizio, nessuno ci dava la motivazione».

Era un sequestro cautelativo. I magistrati fecero una stima dei primi danni e vi bloccarono i conti a titolo di garanzia. Ipotizzarono un danno intorno ai due milioni e mezzo di euro.

«Oh, certo. Ma mica scappavamo! In ogni caso ho campato grazie al conto di mia moglie. Non lo auguro a nessuno».

Fate una scelta difensiva azzardata.

«Ah, certo. Noi chiediamo subito il rito abbreviato.

Perché? Questo comportava meno garanzie difensive per il gruppo.

«Vero. Ma ero si-cu-ro di vincere, capisce? È stata una mossa temeraria ma, alla luce di queste sentenze, azzeccatissima».

Come mai?

«Non lo avessimo fatto saremmo ancora oggi in tribunale! E invece sei-zero. Come al tennis».

E poi?

«Ci gettammo a capofitto nella battaglia in tribunale, chiedendo un incidente probatorio».

Ovvero una prova scientifica, una perizia sulla solidità delle strutture. Anche questo un bel rischio. Gioca a poker, per caso?

«Non scherzi su questo processo. Arrivarono le troupes, gli inviati, persino le Iene. Un giorno uno dei giornalisti del programma Mediaset mi aveva mostrato le riprese degli intonaci scrostati, su alcuni viadotti, e mi aveva chiesto come potessi negare il rischio».

E lei cosa aveva risposto?

«Ero curioso di sapere quali competenze tecniche avesse per confondere degli intonachi deteriorati con delle crepe. Spiegavo a questo giornalista che io di quelle campate conoscevo ogni giunto, ogni bullone, ogni metro di asfalto».

Ma quindi secondo lei eravate vittima di un complotto?

«No. Non mi strapperà una sola parola di rancore, nemmeno con le tenaglie».

Chi altro finì con i lucchetti sul conto?

«Il nostro attuale vicepresidente, Mauro Fabris. Il presidente della società di allora, il dottor Lelio Scopa».

Eravamo rimasti al sequestro.

«Il direttore di banca mi prese in disparte, imbarazzato: “Lei, tecnicamente non ha più una lira sul suo conto. Ciò che è congelato non lo può toccare”».

E poi?

«Accadde il peggio. Sulla base di questi cinque processi in corso il Governo dell’epoca arrivò a mettere in discussione l’affidabilità delle autostrade al Gruppo Toto: è venuto meno il rapporto di fiducia, dicevano».

E questo aveva una conseguenza.

«Revoca immediata della concessione».

Lo apprendeste in un dibattito parlamentare.

«Era nell’aria. Ma ricordo il giorno in cui una senatrice dei Cinque Stelle chiese al ministro Giovannini: “Quindi state dicendo che l’autostrada non è sicura”?».

E Giovannini rispose.

«Cito a memoria: “Non stiamo dicendo questo. Stiamo dicendo che essendo venuto meno il rapporto fiduciario viene meno la concessione. Le accuse sono così gravi...”».

La strada fu quella di un voto in Aula.

«Ricordo quelle ore come un incubo».

Come mai?

«Noi perdemmo la concessione per pochi voti al Senato, per un codicillo ad hoc, infilato nell’ultima norma votata in quella Legislatura: sette luglio del 2022».

Chi votò a favore?

«La maggioranza dell’epoca. Ma con molti distinguo, assenze, mal di pancia di chi riteneva quell’esproprio immotivato. Ci furono 48 astenuti (Lega e Italia al Centro). Votarono contro Fratelli d’Italia, Forza Italia e altri del Gruppo Misto».

Da quel momento la gestione passa ad Anas, ma i dipendenti sono ancora a carico vostro.

«Anas prende in carico la gestione e i nostri 550 dipendenti, che però continuiamo a pagare con i soldi che ci danno loro. Il ministero non ci paga i crediti che pure vantavamo nei confronti dello Stato. Perdiamo naturalmente tutti i ricavi, derivanti dai pedaggi. Un pasticcio».

Andate in crisi di liquidità.

«Ovviamente. Noi diventiamo debitori e rischiamo di fallire. L’Anas ci anche fa un decreto ingiuntivo».

Una cosa che vorrebbe poter dimenticare.

«La sera del 7 luglio 2022, a via Bona, sede della Società, arriva la Digos a sequestrare le carte, ed entra in sede con le telecamerine accese. Ci sentivamo come i narcos dei film. Tutti i nostri dirigenti vengono messi fuori dalla porta».

Chi ha voluto tutto questo?

«Chi ha votato quella revoca e chi l’ha proposta».

Che spiegazione si dà?

«Non me la do. Bisognerebbe chiedere a loro».

Quanto dura il limbo?

«Fino al 2023, quando – grazie alle prime assoluzioni – veniamo reintegrati nella gestione di A24 e A25 dal Parlamento, con una norma passata senza voti contrari. Altro caso più unico che raro in questa Legislatura».

Mi citi due momenti critici.

«All’inizio quando venne il ministro Toninelli e disse, accompagnato dall’Ingegnere Migliorino del MIT, alzando gli occhi: “Questo ponte può crollare”. Tirai un respiro solo quando gli rispose l’ingegner Chiaia, stimatissimo perito del Tribunale: “È tutto sicuro”. Una follia».

A che si riferisce?

«Nel suo periodo di gestione Anas non toccò nulla. Non chiuse un solo viadotto. Non toccò un solo chiodo».

E non è felice?

«Ma se il motivo della revoca era il “gravissimo rischio di crollo”, così scrisse il Consiglio di Stato per giustificare l’esproprio della concessione e il trasferimento della sua gestione ad Anas, perché non si interveniva? Era un controsenso logico».

Cosa vi salvò?

«Un altro paradosso. Lo stesso Governo che ci espropriava aveva approvato, quasi in quegli stessi giorni, la legge sui fallimenti. Che era più garantista e che proteggeva da fatti estranei alla corretta gestione interna le aziende stesse, a tutela degli interessi generali. Tra quelle norme ce n’era una provvidenziale».

E cosa accadde?

«Grazie a quella Legge siamo riusciti ad evitare il tentativo di far saltare, fallire la società. Buffo, no?».

Perché il concordato preventivo sostituiva il fallimento e dimostrava come l’esproprio fosse la causa dell’insolvenza della società.

«I commissari, nominati dal Tribunale di Roma a tutela di Strada dei Parchi, lavorarono per un anno e mezzo. E un altro ci è voluto perché si chiudesse quella procedura. Il 1° gennaio del 2024 firmammo un nuovo solenne accordo con il Ministero delle Infrastrutture. Pensi: proprio io che, al momento in cui tutto iniziò sequestrandomi i conti correnti non potevo toccare un euro, incassai due assegni da 250 milioni di euro l’uno a riconoscimento dei crediti che invece noi vantavamo nei confronti dello Stato. Li ha mai visti in vita sua?».

Mai.

«Se girassero un film con questa storia, tutti penserebbero che abbiamo romanzato».

Il momento più brutto?

«Dopo la revoca. Erano saltati i rapporti di tutto il Gruppo con le banche. Nessuno credeva che fossimo in grado di pagare. Un momento difficile anche per tutti i dipendenti del Gruppo».

Anche le altre società?

«Ovvio. In Sicilia avevamo dei cantieri a Cefalù, che rallentavano, e la Regione prese atto della nostra crisi di liquidità».

Dovuta a cosa?

«Tutte le società del Gruppo avevano crediti nei confronti di Autostrada dei Parchi. Ma i commissari non li liquidavano. Ecco come si spiega l’entità del risarcimento».

Scriva il suo finale del film.

«Una storia incredibile. Mai capitata a nessun concessionario. Mai accaduto nella storia dell’Italia repubblicana, intendo».

Avete ottenuto anche due anni di proroga della concessione.

«Sono quelli che abbiamo perso a causa dell’esproprio. Nessuno ci ha regalato nulla. Le recito cosa dicono gli atti? Quella situazione di difficoltà che rischiò di far saltare l’intero Gruppo fu dovuta alla “Procurata situazione di insolvenza” derivante dalla revoca della concessione».

E ora voi avete carta bianca?

«Non direi. Fino al 2032, termine della concessione, non possiamo fare investimenti».

La cosa di cui va più orgoglioso?

«In questi miei anni di Strada dei parchi? Nel 2009, dopo il terremoto dell’Aquila, noi mettiamo in sicurezza, in sole 24 ore, l’autostrada. Credo si possa dire che è stata una impresa. Ma gliel’ho detto: sapevo dove dovevamo mettere le mani. Ci accusavano di aver speso poco per le manutenzioni. Il ministero, durante il mandato della De Micheli, nella Relazione annuale al Parlamento ha invece messo nero su bianco il contrario».

E cioè?

«Dovevano fare 25.8 milioni di manutenzioni. Ma al Ministero risultava che ne avevamo spesi 30! Quasi cinque di più!».

Torniamo al processo sui viadotti. L’incidente probatorio.

«Se l’avessimo sbagliato eravamo morti!».

Qui c’era il professor Chiaia del Politecnico di Torino, consulente della Procura di Genova nel processo per il crollo del Morandi, a controllare. Il classico “test dei carri armati”. Il Viadotto deve reggere al sovraccarico.

«Esatto. Simulammo questa situazione mettendoci sopra dodici autocarri da 50 tonnellate».

Risultato?

«Dati migliori di quello che ci aspettavamo, ad esempio sul viadotto San Sisto, anziché i dieci centimetri di flessione attesa calammo solo di otto».

E le acque?

«Le ho spiegato che l’accusa era l’inquinamento delle acque sotterranee del Gran Sasso. Risultava una percentuale di Toluene. Secondo l’accusa veniva dalla pittura della segnaletica stradale».

Una cosa senza senso. La vernice asciugandosi evapora.

«Infatti, la pm non l’aveva trovata in galleria. L’esame proveniva da un fontanino di Fano al Corno: 18 milligrammi al litro. Ma il limite per le acque sotterranee era di 15 milligrammi».

Quindi il processo ballava per tre milligrammi il litro?

«Proprio così: ma pensi che per le acque potabili il limite è di 700 milligrammi per litro!».

Quindi il processo si reggeva se si trattava di acque sotterranee. A chi dovete la vostra assoluzione?

«All’Istituto superiore di sanità: siamo stati assolti perché il fatto non sussiste. Ma attendo le motivazioni. Vuole un dettaglio demenziale? Durante il processo abbiamo scoperto che, fra le tre sonde che dovevano testare le acque, una sola funzionava».

E le altre?

«Una era in riparazione. E l’ultima non trasmetteva dati perché attrezzata con delle schede telefoniche ricaricabili che erano esaurite!».

Morale della favola?

«Tutto questo ha dimostrato che A24 e A25 sono sempre state autostrade sicure per l’utenza. Per anni si è fatto un dannoso allarmismo. Generando paure e sospetti infondati».

Adesso può togliere dal suo ufficio la lavagna scena del delitto.

«No. La tengo, così per scaramanzia. Ma finalmente ricominciamo a vivere. E scriva che usciamo dai processi come ci siamo entrati. A testa alta».