L'Abruzzo e le sue storie di integrazione, Alpha: «Volontario per amore, ripago l’Italia che mi ha accolto»

Cuoco in un autogrill sull’A14, nel tempo libero si mette a disposizione del Comune di Fossacesia «Mio padre era un ribelle in Senegal e l’hanno ucciso. Sono scappato con un barcone per salvarmi»
FOSSACESIA. Alpha Balde, il cuoco senegalese di 36 anni che ha sorpreso tutti con il suo gesto di gratitudine verso la comunità che lo ha accolto, si racconta al Centro. Arrivato in Italia il 30 maggio 2016, ha girato i centri di accoglienza in Abruzzo e Molise prima di trovare stabilità. Oggi vive a Fossacesia e lavora come cuoco con un contratto a tempo indeterminato nell’area di servizio Sarni “Sangro Ovest”, sulla A14, tra la passione per il running e l’amore per il basket. Ma nei giorni di riposo ha scelto di mettersi a disposizione del suo Comune come volontario, scrivendo direttamente al sindaco Enrico Di Giuseppantonio. È «un modo per restituire all’Italia ciò che mi ha dato», ripete Alpha, quasi come un mantra. La sua storia personale, segnata da tanti sacrifici e vera resilienza, può essere oggi un simbolo concreto di integrazione, ma può andare anche oltre, come modello civico. Alpha ora sogna di ottenere la cittadinanza italiana e di poter ricongiungersi con la sua famiglia rimasta in Senegal.
Come si descriverebbe oggi?
«Un sognatore, mi sento realizzato, anche se ancora con tanti sogni. E devo tutto all’Italia».
Com’è la sua vita a Fossacesia, nel lavoro e nel quotidiano?
«Una vita tranquilla, mi trovo benissimo, ormai è casa mia».
Cosa le piace di più dell’Abruzzo?
«Tutto. La semplicità, il non sentirsi diverso dagli altri, anche se mi chiamano uomo di colore (ride, ndc). È una cosa che mi fa sempre ridere, perché io sono sempre e solo nero; invece, mi sembra che voi non solo abbiate un colore, ma addirittura lo cambiate spesso: se vi abbronzate, quando vi arrabbiate, se avete caldo o freddo (ride ancora)».
Racconta la sua infanzia?
«È stata difficile. Sono cresciuto in un villaggio, senza mai ricevere istruzione. Ho studiato per la prima volta qui in Italia, a Schiavi d’Abruzzo, dove ho imparato a leggere, scrivere e parlare italiano».
Cosa l’ha spinta a lasciare il Senegal?
«La storia della mia famiglia. Mio padre era arruolato con un gruppo di ribelli che combatteva contro il governo senegalese, poi ha visto cose troppo brutte e ha deciso di ritirarsi. Ma quando ci entri dentro, se ne esci sei un uomo morto. Qualche tempo dopo l’hanno ucciso. Avevo 12 anni. Avevamo diverse mucche a casa e ogni tanto ne spariva una. A vent’anni ho deciso di scappare per salvarmi».
Che ricordo ha del viaggio: la Libia, il barcone, la traversata?
«I momenti più difficili li ho passati in Libia, dove ti possono ammazzare ogni cinque minuti. Lì anche i bambini hanno le armi, e se ti dicono ti ammazzo, lo fanno. Perché non si rendono conto fino in fondo. Anche in mare però è stato molto difficile, pericolosissimo. Siamo partiti il 26 maggio. Cinque giorni di navigazione. Eravamo 115 persone su una barca che ne poteva portare 60. È stato un miracolo. Siamo partiti alle 2 del mattino e verso le 7 abbiamo incontrato una barca tedesca di pescatori che ci hanno dato un primo aiuto. Poi è arrivata la nave di Medici Senza Frontiere».
E dopo un po’ è sbarcato in Italia.
«Il 30 maggio del 2016. Un giorno bellissimo che non dimenticherò mai».
Cosa ha pensato appena ha toccato terra nel porto di Palermo?
«Che mi trovavo in un altro mondo. Ma avevo ancora paura. Appena ho visto una macchina della polizia ho pensato al peggio, per colpa dei brutti ricordi che avevo della Libia. Ma poi ho capito che ero finalmente al sicuro».
Sapeva già qualcosa dell’Italia?
«Non ci crederete, ma avevo un sogno fin da piccolo: parlare l’italiano e l’arabo. In Senegal vedevo sempre un film con Jean Claude Van Damme che si rivolgeva a una donna dicendole: corri, corri. La ripetevo sempre».
Sogno esaudito, a quanto pare.
«Per questo ho voluto rimanere in Italia. Manca ancora qualcosa però alla perfezione, e ci tengo sempre a scusarmi se faccio qualche errore quando parlo».
Altri sogni nel cassetto?
«Portare mia moglie e i miei tre figli qui, anche se è un po’ complicato».
Facciamo un passo indietro. Come si è trovato nei vari centri d’accoglienza?
«Benissimo. Sono uno che si vuole sempre dare da fare, e quando sono arrivato nel centro a Schiavi non volevo passare ore in camera. Dopo la Libia non ne potevo più di sentirmi rinchiuso. Allora ho iniziato a propormi per qualsiasi lavoro, dalla pulizia al facchinaggio, fino all’aiuto in cucina».
È lì, praticamente, che si è formato.
«Sì, ho fatto l’aiuto cuoco per tre o quattro mesi, poi il capo mi ha proposto di andare in un altro centro; ne ho girati diversi dandomi da fare. Poi sono riuscito ad avere i documenti e ho iniziato a lavorare davvero come cuoco, fino a trovare lavoro da Sarni, nel 2018, un’azienda che ringrazierò per sempre. Mi serviva un lavoro stabile e con tanta forza di volontà ho ottenuto un contratto a tempo indeterminato nel Paese dei miei sogni».
Cosa l’ha spinta a scrivere al sindaco di Fossacesia per offrirsi volontario?
«L’Italia e gli italiani hanno fatto tanto per me, devo ripagare questa terra e restituire tutto quello che mi ha dato. Mi sono fatto aiutare da un amico a scrivere la lettera, perché purtroppo non scrivo ancora molto bene. Il sindaco mi ha dato appuntamento e mi sono messo a totale disposizione. È davvero l’unica cosa che posso fare per voi e questo paese. Comincio da Fossacesia».
Cosa significa per lei “restituire” con le azioni ciò che ha ricevuto?
«Molto semplice: le ore libere dei miei giorni di riposo le voglio dedicare al volontariato».
Che tipo di attività s’immagina di svolgere?
«Qualsiasi cosa, basta che la sappia fare, non mi interessa cosa. Voglio compiere un gesto nobile per la terra d’Italia».
Qual è per lei il significato della parola “integrazione”?
«Una cosa che non deve restare solo una parola, ma che bisogna mettere in pratica giorno per giorno in qualsiasi momento, in ogni modo possibile. Mi sono messo in gioco invece di parlare e basta. E credetemi, non faccio tutto questo per attirare attenzioni, non voglio apparire. Questa intervista non l’avrei nemmeno fatta, ma voi siete così gentili con me e parlo volentieri. Vorrei che questo mio messaggio fosse chiaro».
E che messaggio vorrebbe mandare agli immigrati che stanno affrontando oggi lo stesso percorso che ha fatto lei?
«Se ti trovi in un posto in cui stai bene, anche solo pensando a come stavi prima, cerca di fare quanto di buono possibile per te stesso e per la terra che ti accoglie».
Come vede il suo futuro qui in Italia?
«Questo è il mio posto preferito. Voglio rimanerci per sempre, spero con la mia famiglia al mio fianco. È questo il mio sogno più grande».
Ha anche un sogno professionale?
«Potrei dirvi che mi basta quello che ho, ma anch’io sono umano. Quindi non so come rispondere, davvero. Vediamo il futuro cosa mi riserverà».