L’antropologo Di Renzo: «La disaffezione al voto? È percepito come inutile»

L’analisi dell’esperto: «Le coordinate culturali della post modernità ci portano a destituire di ogni valore coloro che in passato avevano il potere di orientare il pensiero»
L’AQUILA. Il crollo dell’affezione alla politica? «È legato al fatto che non si percepisce più l’attuale sistema come rappresentativo». Comincia da qui l’analisi del professor Ernesto Di Renzo, abruzzese, antropologo all’Università di Roma Tor Vergata, relatore in seminari e master nazionali e internazionali e opinionista televisivo. Sull’ultimo rapporto del Censis, il professor Di Renzo ha le idee molto chiare.
Professore, perché gli italiani non votano più e non discutono di politica?
«Perché siamo di fronte a quella che non è una democrazia rappresentativa. Anche l’atto del voto non è più percepito come la possibilità di scegliere chi debba essere a rappresentarci. È tutta una decisione che compete alle segreterie dei partiti, con l’elettore che viene solo chiamato a ratificare le scelte del partito. Si ha la netta percezione dell’inutilità e della inefficacia della partecipazione al voto».
I cittadini non si sentono coinvolti?
«No, non si sentono importanti, né decisori di scelte. Vengono solo chiamati a legittimare scelte fatte da altri. La soggettività del singolo diventa ininfluente perché sono altri che hanno deciso. Il cittadino non ha la possibilità di scegliere che vuole a rappresentarlo. E quando avverte la completa inutilità del suo ruolo si chiama fuori. E, poi, c’è anche un altro discorso».
Quale?
«Ha caratteri più generali, che vanno oltre la politica e hanno a che vedere con la cornice ideologica che domina la contemporaneità ovvero l’affermarsi del potere debole. Le coordinate culturali della post modernità ci portano a destituire di ogni valore e credibilità tutti coloro che, in passato, avevano il potere di orientare il pensiero: banche, capi di partito, istituzioni, la Chiesa, i grandi intellettuali».
Una sorta di destituzione dei poteri forti?
«Esattamente. Di delegittimazione, dal basso, di tutti coloro che hanno avuto, finora, ruoli di venditori collettivi di credibilità».
Dalla politica alla cultura. Come vede il crollo delle spese delle famiglie per la fruizione della cultura?
«Non si vendono giornali e non si comprano libri perché ci hanno fatto credere che la cultura non serve a nulla e non rappresenta l’ascensore sociale che ci permette di migliorare la nostra posizione di partenza. Non viene più assegnata alla cultura questa funzione e lo si è fatto delegittimando i presidi volti alla divulgazione della cultura: scuole, università, biblioteche, centro culturali. La grande narrazione della contemporaneità ci dice che, attraverso la cultura, non miglioriamo noi stessi. Addirittura può rappresentare un ostacolo agli orizzonti meritori che la grande narrazione ci prospetta: il successo, la ricchezza, il prestigio il rango non si costruiscono più con la cultura, ma attraverso strade alternative».
Come si destituisce la cultura?
«In tanti modi. Ad esempio, elargire lauree ad honorem a persone che non hanno studiato, ma hanno raggiunto traguardi meritori lancia ai giovani un messaggio errato: tutto sommato non serve studiare tanti anni perché quel traguardo ti viene riconosciuto anche in maniera non conseguenziale allo studio. Ed è completamento errato come tutti i modelli idealizzati attraverso i mass media e i canali social, che premiano ed esaltano figure che vengono proposte come modelli da imitare».
Invece?
«Non lo sono. Non hanno dietro le spalle un bagaglio culturale. La cultura non rappresenta più, nell’idea comune della nostra società, il percorso attraverso cui arrivare al successo e alla realizzazione personale. I modelli che ci vengono proposti sono di persone che hanno acquisito prestigio, ricchezza, benessere, reputazione indipendentemente dallo studio e la cultura».
Non si acquistano più libri: perché?
«Il fatto che non si comprano più libri non vuol dire che non si legga più: all’università rilevo, tra i giovani, grandissime lacune come cultura nella sua accezione umanistica e scolastica, ma quando chiedo di scrivere il loro pensiero rimango sorpreso della profondità e della capacità di ragionamento che hanno i giovani. Il che pone il quesito se il sapere o la cultura si fondino, necessariamente, sulla lettura canonica dei libri: è possibile che ci siano altre formule attraverso cui costruire canali culturali. Dovremmo immaginare che la cultura è formata anche dalla capacità di vedere e riflettere sulle cose. Questo non vuol dire che non si debba leggere».
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