Editoriale

Luca Telese: «I dazi e l’opossum, gioco d’azzardo»

29 Luglio 2025

L’editoriale del nostro direttore sull’accordo dei dazi tra Europa e America

Ho aspettato un giorno, prima di scrivere sull’accordo dei dazi tra Europa e America: le prime sintesi delle agenzie potevano essere compensate dai dettagli importanti e compensazioni secondarie non immediatamente visibili. La terrificante scena della dichiarazione congiunta, con Donald Trump gongolante e bullo, e Ursula Von der Leyen confusa e remissiva, poteva comunque diventare la brutta facciata di un accordo al ribasso, poi riequilibrato dagli sherpa e dai negoziatori. Su tutto, in quel dialogo impari, svettava questa scena: la Von der Leyen decantava l’accordo sui farmaci (dazi al 15%), mentre Trump – a distanza di appena un minuto spiegava: «I farmaci non sono dentro l’accordo sono troppo importanti per l’industria americana». Lei quasi balbettava: «L’accordo sui dazi al 15% era il meglio che potevamo raggiungere». Lui la apostrofava al limite dell’irrisione: «Voglio farti i miei complimenti, Ursula, perché stai firmando l’accordo più importante della tua vita». Stendiamo un velo pietoso. Ho letto, con interesse, che secondo una esperta del linguaggio del corpo, l’americana Judi James, osservando l’atteggiamento della presidente della Commissione Europea si poteva dedurre che Ursula aveva adottato la “tattica dell’opossum”. Rimanendo – cioè – «seduta immobile, a mani consentite, e con uno sguardo inespressivo, sebbene ci fossero diversi elementi che indicavano un suo vero stato d’animo». In poche parole, una disfatta comunicativa. Questo era il mio sentimento di domenica sera.

Ma adesso, mentre si stanno chiarendo (molti) dettagli importanti che non erano emersi nella conferenza stampa ufficiale, mi sono pentito di non aver scritto ieri: quando si va nel dettaglio, in questo patto scellerato del 15%, il quadro peggiora di molto, ora dopo ora. L’Europa (e di conseguenza l’Italia e l’Abruzzo) sono letteralmente finite nel tritacarne immaginato dal nostro Gabriele Cappi per illustrare il senso di un accordo. Il tema non è solo il balzello sulle merci importate negli States: e non è neanche il fatto che, come ha spiegato a caldo un analista come Federico Fubini, queste percentuali (nel 90% dei casi) talvolta si cumulano a quelle dei dazi già in essere. E non è neanche Il tema che nel caso degli acciai e dei metalli le quote dei dazi vengono fissate al livello insostenibile del 50%.

Il punto è che l’accordo con Trump non è cieco: non è come un terremoto o una alluvione, non colpisce a caso, ma è disegnato in modo scientifico per danneggiare le eccellenze delle economie europee e prefigurare un modello. Colpisce duramente il settore agroalimentare, che da solo cuba tre miliardi del nostro export a stelle e strisce, e in particolare (come abbiamo raccontato ieri) la nostra punta di diamante: il comparto dei vini e degli alcolici. La grande visibilità del balzello al 15%, poi, oscura e fa apparire meno visibile l’altro elemento portante del patto siglato da Trump e dalla Von der Leyen: gli obblighi di reciprocità. L’Europa – infatti – si impegna – a sostenere nei prossimi anni alcuni onerosissimi investimenti obbligati: acquisti di energia per 750 miliardi, armi per 800 miliardi, 600 miliardi di investimenti europei negli Stati Uniti. Queste non sono solo cifre fuori scala: sono degli impegni che ipotecano il futuro. Il gas liquefatto americano dovrebbe diventare il cuore di un enorme investimento energetico (alla faccia del Green Deal), e gli armamenti americani di fatto finirebbero per assorbire da soli il totale di quella enorme spesa bellica che l’Europa (non senza polemiche) aveva contrabbandato come un viatico verso un esercito comune continentale.

A meno di non sfondare ulteriormente i faraonici budget già previsti il programma di riarmo, immaginato così, diventa altro: un superbonus missili e cannoni per le aziende americane, e un handicap per quelle europee a cominciare dalle italiane. Insomma, una catastrofe. Ecco perché era grottesco leggere le note ottimistiche diffusa dal cancelliere tedesco Mertz, che domenica sera cantava vittoria per il dazio del 15% sull’industria dell’auto. Questa misura ci riguarda direttamente, non tanto per le fortune di Stellantis (ormai molto francesizzata), ma perché sia Volkswagen, Audi e Mercedes attingono a piene e mani alla componentistica italiana di eccellenza: se quel settore tiene a Berlino terranno anche le commesse nelle tante fabbriche dell’indotto (molte delle quali sono in Abruzzo).

Tuttavia era disarmante notare che in quella nota Mertz parlava unicamente delle ricadute economiche per il suo paese. Come se la Von der Leyen avesse negoziato (si fa per dire) non per conto di tutta l’Europa, ma solo su mandato stretto del suo cancellerie di riferimento. Con i francesi non deve essere andata benissimo, se è vero che il primo ministro francese Francois Bairou definiva il patto così: «Un giorno nero».

E il nostro governo? Giorgia Meloni è rimasta un passo indietro, e si è quasi nascosta: «Accordo sostenibile. C’è ancora da battersi». La verità è che in generale l’impressione del colloquio è stata confermata dalle diplomazie di rito: i governi europei, in prevalenza conservatori, non hanno trattato con la fermezza (per fare degli esempi) di Cina e Canada. Non da controparti, ma da alleati rassegnati o dolenti. Esiste un indizio molto importante di questo stato d’animo: per motivi quasi misteriosi la Von der Leyen si è presentata al tavolo delle trattative volutamente nuda. Disarmata, cioè, da due precedenti e recentissimi accordi svantaggiosi, voluti da lei (nel merito e nella tempistica), che hanno diminuito drasticamente il suo potere negoziale. È stato suicida rinunciare due settimane fa alla global minimum tax sulle imprese americane.

Ed è stato ancora più inopportuno concedere in sede Nato il tanto richiesto (da Trump) innalzamento del tetto di spesa militare al 5%. Il presidente aveva fatto fuoco e fiamme su questo tema, e ora se ne capisce il perché: prima, con quella mossa, ha vincolato i bilanci dei paesi europei all’accordo Nato sull’aumento di budget. E successivamente si è assicurato che questo enorme flusso di denaro fosse speso in America, in costosissime commesse per le industrie a stelle e strisce: guadagnandoci spesso due volte, come nel caso dei sistemi di difesa missilistica Patriot che al governo americano costano un miliardo per ogni batteria, mentre a noi europei due miliardi e mezzo a batteria (più del doppio). Queste due mosse di desistenza preventiva – al di là delle abilità e delle incapacità personali – hanno fatto sì che la Von der Leyen si presentasse disarmata alla sfida finale, che la negoziazione diventasse sottomissione, che l’Opossum venisse ridicolizzata, insieme ai 27 paesi che rappresenta.

L’ultima follia – in cui si sono distinti italiani e tedeschi – è stata l’accettazione dell’egemonia culturale trumpiana. L’idea surreale della bilancia “sbilanciata”. Ovvero di quel disavanzo nella bilancia import-export per cui Trump ci aveva definito “parassiti”. Come se fosse una colpa degli italiani e degli europei aver convinto il pubblico americano della bontà delle nostre eccellenze. È vero il contrario. So bene che il retropensiero della propaganda dei “trattativisti” in questo momento consiste in un mantra già sentito nelle ore dell’accordo Nato: accettiamo chinando la testa, tanto «fra tre anni e mezzo Trump non ci sarà più». Un calcolo a dir poco azzardato: anche io spero che fra tre anni non ci sia più – infatti – ma temo che molto prima a scomparire siano loro: gli opossum.