L’editoriale

Stappóst o non stappóst?

17 Settembre 2025

L’editoriale del direttore sul dibattito del dialetto: «Si, può esistere un dialetto semplificato. Chi storce il naso ha preso una cantonata»

Ho letto con molta attenzione l’intervista che abbiamo pubblicato a Setak, ieri, sul dialetto. E si potrebbe dire che sono già soddisfatto di come abbiamo messo in campo – in soli due giorni – il dibattito appassionante scatenato su queste pagine dalla felice provocazione di Enrico Melozzi: «Può esistere un dialetto semplificato», un abruzzese for beginners che racconta una intera regione al mondo? La risposta, ovviamente, per me non può che essere Sì. E – aggiungo subito – per i tanti che stanno storcendo il naso inorriditi: mi pare che abbiano preso una cantonata. In poche parole: non hanno capito, hanno visto il dito che indica la luna, ma non la luna.

Ho molto rispetto per tutte le posizioni (non è un gioco di supremazia, non è una gara) ma sono certo che molti, fra i tanti che ci scrivono in queste ore preoccupati o che stiamo intervistando (da ’Nduccio a Luciano D’Alfonso – proprio qui sopra – per arrivare fino al ragionamento “identitario” di Setak), dicano cose molto interessanti, ma non colgano il punto del ragionamento fatto dal maestro teramano. Qui il tema non è rinunciare alla propria lingua (musicale o letteraria) per un qualche tornaconto commerciale, o addirittura “svendersi”, e cioè sacrificare l’identità più nobile per il successo facile. È vero piuttosto il cuore della “tesi Melozzi”: creare un “abruzzese pop”, più accessibile e comprensibile, anche fuori dai confini della regione, in tv o nel cinema. Questo non cancella una cultura, ma semmai crea un interesse rinnovato, diventa “un amo” che porta dentro i confini della tua identità culturale un pubblico più vasto, e lo avvince alla grandezza delle tantissime biodiversità (in questo caso soprattutto linguistiche) di questa grande terra. Dice Donatella Di Pietrantonio: «L’Abruzzo è l’unica regione d’Italia in cui il dialetto cambia ogni cinque chilometri. Questo accade – prosegue il premio Strega – per motivazioni geografiche, culturali, storiche» (o il più delle volte – aggiungo io – per tutti questi tre fattori fusi insieme).

Melozzi aggiunge un elemento in più, e cioè che servirebbe addirittura un comico che si facesse ambasciatore e interprete di questo abruzzese pop, e aiutasse a diffondere l’interesse per un intero mondo che ogni lingua si porta dietro. Nella levata di scudi di chi dice “Giammai!”, colgo qualche elemento di conformismo timoroso, e a tratti persino l’accento scandalizzato di qualche “Signora mia!” nei tanti che sono quasi offesi: chi parla di rinuncia, chi addirittura di violenza, chi accusa di svendita culturale. In realtà Melozzi spiega molto bene quello che è accaduto, per esempio, con “il romanesco semplificato”: l’egemonia culturale del dialetto di Roma nel cinema italiano, da Pierpaolo Pasolini a Ninetto Davoli, da Tomas Milian a Bombolo, da Carlo Verdone a Christian De Sica non ha fatto sparire una cultura. Semmai il contrario: ne ha rafforzato l’identità. Ed ecco l’effetto rovesciato e virtuoso: la variante pop, accende l’interesse per le varianti cool. Il basso spinge verso l’alto. Non esisterebbero il mito, e l’egemonia culturale del romanesco senza questa potente opera di “proselitismo” didascalico: i grandi attori, i grandi intellettuali, gli ambasciatori anche più inimmaginabili che hanno contributo a costruire e diffondere una idea della romanità – da Nino Manfredi a Eros Ramazzotti a Bombolo – hanno sintetizzato una koiné, una lingua comune accessibile a tutti. Poi chi vuole cercare “l’autentico trasteverino” (ne esistono ancora!) e il romano-romanista di Porta Metronia che pare un clone di Francesco Totti (non avete idea quanti se ne trovino) è già diventato un potenziale turista, un potenziale lettore, un potenziale esploratore, e forse persino un potenziale studioso di mondi che coesistono uno al fianco all’altro sincreticamente. Non ho dubbi che Milano, dopo l’archeologia nazionalpopolare e barzellettiera dei Gino Bramieri sia decaduta terribilmente, nel tempo di Renato Pozzetto e dei Massimo Boldi: se i meneghini avessero potuto costruirsi un nuovo comico, con la stessa facilità e ricchezza con cui hanno edificato CityLife, le locandine dei film oggi sarebbero piene di attori milanesi e per capire cos’è un bauscia non servirebbe un vocabolario. Ma il dono del magnetismo, l’intelligenza, l’imprevedibilità, il talento, la capacità di conquistare la scena (per fortuna), non si comprano al supermercato. A me pare che Melozzi ci sta dicendo esattamente questo: quanto vale Massimo Troisi, nel successo e nella forza dell’immagine di Napoli? Quanto la napoletanità acquisita di Diego Armando Maradona? Quanto pagherebbe Amsterdam per essere cantata anche solo in una commedia con Lello Arena? Come si fa a immaginare il Vesuvio senza Pino Daniele ed Edoardo Bennato? Quello che sto dicendo è che Troisi ha fatto con dolcezza nella propria biografia artistica, la stessa rivoluzione di cui parla Melozzi. Massimo è partito con la Smorfia, che aveva bisogno dei sottotitoli per essere capita a nord di Roma, quelle gag immortali che ancora variano e dominano nelle teche Rai. Troisi è partito disegnando una epopea umana in lingua nobile, sulle orme di Edoardo De Filippo, ma alla fine della sua vita, girava dei film in cui diceva non più di dieci parole in “napoletano filologico”, e il resto era… Word music. Il suo sodale Roberto Benigni ha avuto il primo successo mondiale (Daunbailò) con un film in bianco e nero in cui parlava esclusivamente in un terrificante americano maccheronico. Ma torniamo a Troisi: pensate a Il postino, il suo ultimo capolavoro, con un regista britannico e un’ambientazione sudamericana. Ecco perché non esistono sbarre, non esistono dogmi, la lingua non segue regole e non si costruisce in vitro, nasce dalle idee e da un processo evolutivo che è in continuo movimento. Non c’è dubbio però, che se uno volesse conquistare l’Abruzzo con il dialetto di Penne, trasformato in canone, potrebbe trovare degli ascoltatori, ma più difficilmente degli interpreti. La lingua semplificata, l’abruzzese da usare come una calamita per attrarre l’interesse del mondo, dovrebbe essere come una sorta di esperanto, un vettore in cui da ogni variante linguistica si prende il meglio, l’espressione rotonda più colorata. Racconto solo un aneddoto, sul pugliese, che forse conta ancora più diversità dell’abruzzese, e che però si è declinato nel Paese quasi esclusivamente nella variante Lino Banfi. Solo pochi giorni fa, quando Antonio De Caro accettava la candidatura a presidente della Regione, sorgeva un terrificante equivoco interpretativo. De Caro dopo tanti dubbi e tante polemiche citava le parole di incoraggiamento di un caro amico salentino recentemente scomparso: “Mena! Antò mena!”. E aggiungeva: “Sì, Caro Donato, faró quello che mi chiedevi tu: mena!”.

Pochi minuti dopo che questo discorso era stato trasmesso in diretta in tv, sui social stava già esplodendo un dibattito sulla violenza politica: “De Caro vuole aggredire gli avversari!”. E adesso vi faccio divertire: in abruzzese, in romanesco, in lucano, in molisano, in napoletano, e persino in pugliese-barese, “mena!” significa la stessa cosa, ovvero “picchia!”. Ma in salentino – ecco una delle varianti topografica denunciata da Donatella Di Pietrantonio – “Ména!”, significa tutt’altro: sbrigati, muoviti, alzati, move on, l’equivalente del romanesco “Daje!”. Ecco perché leggendo tutti i critici di Melozzi mi sono definitivamente convinto che la via indicata dalla sua privazione sia quella giusta per allargare i confini dell’Abruzzo nel mondo. Se si rimane ai quindici meravigliosi dialetti filologici e autoctoni talvolta si fatica a parlarsi tra parenti. Se si riesce nell’esercizio “della semplicità / che è difficile a farsi” (Bertolt Brecht) si fa l’operazione opposta della banalizzazione. La sintesi. D’altra parte, nella più nota delle sue Lezioni americane, Italo Calvino diceva che “la leggerezza e l’essenzialità” non sono mai superficialità, ma la più difficile e utile “sottrazione di peso” che si possa fare nel linguaggio e nel racconto. Riavvolgo il nastro e concludo come se fossi su la Settimana Enigmistica: tre parole fuse in una, crasi, elisione della vocale: Stappóst!