Parsi: «Io, cresciuta respirando l’Abruzzo. D’Annunzio? Di casa»

La psicologa: «Da bimba stavo sempre con i nonni di Sulmona». E sulla psicoterapia: «Insegno, i miei pazienti sono allievi»
PESCARA. Ci sono delle persone che sembrano trasparenti, lineari, e che invece sono un groviglio. E nel loro labirinto si può trovare una strada non banale per capire il presente. Maria Rita Parsi è una di queste. Lei è una delle psicoterapeute e psicopedagogiste più note in Italia, con più di 100 pubblicazioni all’attivo. Nata e cresciuta a Roma, ma con alle spalle una famiglia dalla forte ascendenza abruzzese, il suo lavoro è stato fin da subito legato alle battaglie politiche. La rivoluzione che sognava, da ragazza iscritta nella Federazione giovani comunisti italiani negli anni ’70, passava per «le scuole, le famiglie e la comunicazione». Un lavoro da fare soprattutto nelle periferie, che sono il vero «cuore dell’impero», dice lei.
Ma le sue battaglie del passato oggi sono ancora più attuali. Scuola e famiglia sono, secondo Parsi, le due istituzioni fondamentali della società. Entrambe in sofferenza a causa del più grande cambiamento della nostra epoca: il digitale. Ed è proprio nel mondo di internet che oggi naviga la comunicazione, la terza forza del cambiamento. Parsi la considera «la causa di ogni disturbo psicologico», perché «dietro un problema psicologico ce n’è sempre uno di comunicazione». Su questo principio ha costruito una propria metodologia di approccio alla psicoterapia, che definisce «insegnamento» e i suoi pazienti «allievi». Questo, il presente. La sua storia, però, inizia molto tempo fa.
Parsi, lei si occupa di giovani da tutta la vita, ma com’è stata la sua infanzia?
«Complicata, faticosissima, ma anche degna di memoria, di riflessione. E legata all’Abruzzo».
Come mai?
«Perché ho passato molto tempo con i miei nonni materni, Checchino e Luigia, che erano abruzzesi, un bene rifugio inestimabile».
Cosa intende con bene rifugio?
«Mio padre lavorava tantissimo e mamma doveva stargli dietro. Lui ha inventato il macchinario per fare i tortellini. E quindi, con loro che non c’erano mai, i nonni avevano un ruolo fondamentale. Oggi non è più così, ma nel secondo dopoguerra era normale».
Di dove erano i suoi nonni?
«Erano sulmonesi. Vivevamo tutti a Roma, ma avevano portato dall’Abruzzo questa fierezza, questa bellezza, questo paesaggio del cuore che è qualità anche della mente. I miei nonni si sono amati per tutta la vita, in nome di un modo di sentire che era squisitamente legato alle loro origini, alla cultura della famiglia».
Quali sono i ricordi che ha più impressi nella mente?
«Il ristorante di nonno Checchino, che era diventato un po’ il rifugio di famiglia. Ricordo i discorsi sul buon cibo, i profumi della tavola imbandita, il tempo passato a parlare, giocare e, chiaramente, mangiare (ride, ndr). Ah, non ho citato un’altra persona fondamentale: lo zio Franco».
Il fratello di mamma?
«Esatto. Zio Franco era un accumulatore seriale di oggetti. Ricordo in particolare che c’era questo Gabriele D’Annunzio di cui ho sentito parlare fin da piccolissima. I suoi libri erano un po’ ovunque... Era come se fosse di casa».
D’Annunzio è un simbolo dell’Abruzzo.
«C’erano alcune poesie, come la “Pioggia del Pineto”, che avevamo imparato a memoria. Questo poeta che univa la poesia e il combattimento, il coraggio e la disponibilità, il sacrificio e comunque l'ammirazione per il femminile, l’amore per la cultura, per l’arte, la musica, faceva parte della cultura della famiglia di mamma».
In che modo?
«Non è un caso che mia zia Anna, l’altra sorella, fosse una giornalista e che mia mamma fosse ragioniera. Parliamo di gente nata nel ’21: non era per niente scontato».
Quelli che racconta sembrano ricordi di una bellissima infanzia, perché ha detto che è stata complicata e faticosa?
«Faticosa perché ci sono stati vari spostamenti di case, il tanto tempo dedicato allo studio – che per la mia famiglia era una priorità – e poi eravamo quattro fratelli, non una cosa da poco. Avevo 10 anni quando ho cominciato ad accudire mio fratello».
E perché complicata?
«Fondamentalmente ero una disadatta, una bambina che aveva un milione di cose da esprimere, ma difficoltà a farlo. Soffrivo di dislessia e, ai tempi, se un bambino non imparava subito a leggere o a scrivere, la prima cosa che si diceva era “non è sveglia”. C’era una cultura diversa».
Come ha superato questa situazione?
«Ho continuato a leggere, leggere e leggere, finché non ho vinto la dislessia. Era stata la mia conquista, ne ero fierissima. A casa circolava una barzelletta su questo».
Cioè?
«Ero al parco con mia nonna. Una signora si avvicinò e disse: “Ma che bella bambina”. Era l’ennesima volta, e allora non resistetti. “Non solo bella, ma anche intelligente!”, risposi. Ci abbiamo riso per anni».
Non abbiamo ancora parlato di psicologia.
«Per farlo, dobbiamo andare più avanti, fino agli anni ’70, e parlare di politica, perché in quei tempi era la questione determinante».
Prima manifestazione?
«Contro la guerra in Vietnam, sarà stato il ’73-75. Ma il mio impegno era rivolto soprattutto alla scuola. Eravamo convinti che il cambiamento dovesse partire da lì».
In che modo?
«Facevamo parte del Collettivo G, cioè Gramsci. Insieme ad altre 3 cooperative – le prime in Italia – ci occupavamo delle scuole, soprattutto nelle periferie, e ci impegnavamo affinché diventassero centri culturali polivalenti. Qualcosa per cui lotto ancora oggi».
Quanto credevate nel cambiamento allora?
«Tanto. Il mondo era diverso da oggi. A Roma, Milano, Firenze, Napoli, in Sicilia c’era un fermento culturale formidabile. Puntavamo al cambiamento, che per noi passava per tre pilastri: famiglia, scuola e comunicazione. Per scrivere il futuro siamo partiti dalle periferie, perché sono queste il cuore dell’impero».
E come si colloca la psicologia in tutto ciò?
«Ho deciso di fare la psicoterapeuta pedagogista, ma a fianco c’erano sempre le attività dell’associazione. Che oggi esiste ancora e si chiama Fabbrica della Pace e Movimento bambino».
Quindi è stata una scelta di impegno politico?
«Pensi che ai tempi non esisteva la cattedra di Psicologia – io mi sono laureata in Lettere e filosofia – e abbiamo dovuto lottare per farla istituire. L’ordine degli psicologi, poi, è nato nel 1989. La nostra cooperativa faceva attività, corsi, laboratori, formazione, attività con i bambini, mostre: l’altra faccia della medaglia non poteva che essere l’insegnamento. E quindi la psicoterapia».
C’è un legame tra insegnamento e psicoterapia?
«Le persone che seguo non sono pazienti, ma allievi. La psicoterapia è stato un insegnamento in primo luogo per me, un modo per imparare a conoscermi, a curare il mio dolore. Ma dopo che impari a farlo, devi aiutare gli altri a seguire lo stesso percorso».
Sente di avere una missione?
«Direi di sì: creare modelli di intervento ripetibili che si possano applicare affinché ci siano percorsi che aiutino veramente le famiglie e le scuole a mettersi in contatto col mondo, a creare un ponte con la società intorno e con i nuovi strumenti della comunicazione, che negli ultimi anni è cambiata molto. E in peggio».
Si riferisce al mondo del virtuale?
«Faccio un esempio. Rispetto a 40 anni fa, le famiglie disfunzionali sono rimaste uguali, quello che è profondamente cambiato sono le situazioni determinate dal virtuale. Il fatto che i ragazzi siano appiccicati ai telefonini dalla mattina alla sera e che siano bombardati di cattive notizie, in continuazione: questa è una brutalizzazione dell’informazione che porta a una mancanza di empatia e incapacità di entrare in contatto con la realtà senza precedenti».
La comunicazione pare un aspetto chiave del suo approccio alla psicoterapia.
«Ho ideato una mia metodologia di intervento terapeutico che si chiama terapia di mediazione creativo corporea. Si basa su un assunto: ogni disturbo psicologico è un disturbo della comunicazione. Se tu individui il disturbo e lo risolvi attraverso la comunicazione, hai risolto il problema».
La maggior parte del suo lavoro è dedicata ai bambini. Perché?
«Credo che i bambini siano la cosa più importante in assoluto».
Eppure, lei non ha mai avuto figli.
«Perché ho capito cosa vuol dire nascere. A me nessuno ha chiesto di venire al mondo e, se per tanti versi è stato interessante, per altri è stato disgustoso. Si ricordi cosa diceva Einstein: “Due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, ma sulla prima ho ancora qualche dubbio”. È per questo che penso che il mio lavoro con bambini, donne e famiglie, i corsi e la formazione che faccio siano importanti».
Non è un mondo in cui vale la pena di nascere?
«Non mi sono mai sentita di prendermi la responsabilità di far nascere delle creature. Non considero la vita un dono: è un impegno e anche un una grossa fortuna se capiti bene, ma è una grossa sfortuna se capiti male. Basta a pensare a chi nasce dalla parte sbagliata del mondo, in famiglie disastrate, a chi è vittima di abusi. Mi prendo la responsabilità a livello educativo, di presenza, di studio, di scrittura, ma non voglio prendermelo ad altri livelli. E le dirò di più, non ho paura di morire da sola».
Non è la paura più umana di tutte?
«Come diceva Fromm, la morte è la madre di tutte le angosce umane. Ma io non ho nessuna paura di morire, spero soltanto che non sia doloroso. Per il resto, non me ne può fregar di meno. Anzi, da un certo punto di vista è un sollievo. E se qualcuno, dopo che sono salita su, mi prova a far tornare, lo faccio a fettine! (ride, ndr)».
Il suo è uno sguardo molto disincantato.
«L’unico incanto che conservo è verso l’intelligenza».
Non teme di lasciare questo mondo a lavoro incompiuto?
«Quello che ho guadagnato andrà alla fondazione, il mio lavoro rimarrà nei miei scritti. Noi ci impegniamo affinché il mondo sia migliore. Fatto questo, per il tempo che dura la vita, che altro si può volere? Io vivo come il colibrì della leggenda africana. La conosce?».
No. Racconti.
«La giungla è in fiamme e tutti gli animali scappano dal fuoco. L’unico che va verso le fiamme è il colibrì. Il leone lo incontra e gli chiede perché si dirige verso il pericolo. “Ho una goccia d’acqua nel mio becco, la vado a buttare sul fuoco”, risponde l’uccello Il leone ribatte che è inutile, ma lui, impassibile: “Ho solo questa goccia e quella butto. Se poi tanti altri animali fanno lo stesso, forse riusciamo a spegnere il fuoco. Io, intanto, ho fatto la mia parte”. Chi sono io? Questo colibrì, che fa quel che può. Finché può».
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