Rapino, da Chieti alla guerra: «Vedo il dramma di Gaza: i bambini sono le vere vittime»

Il cooperatore internazionale teatino Guglielmo Rapino, avvocato classe 1991, vive in presa diretta il dramma umanitario del conflitto in Palestina. E lo racconta al Centro
Da una carriera ben avviata come avvocato di successo a Milano alla decisione di mollare tutto e diventare cooperatore internazionale nei luoghi più bisognosi del mondo. Questa è la parabola di Guglielmo Rapino, teatino classe 1991, che negli ultimi mesi ha vissuto in Giordania, documentando in presa diretta il dramma umanitario del conflitto in Palestina.
Rapino, partiamo dall’inizio. La sua storia parte da Chieti e tutto lascia presagire una carriera importante come avvocato.
«Ho studiato Giurisprudenza alla Luiss a Roma e, uscendo da quell’università nel 2015, indubbiamente le porte del mondo del lavoro si aprivano facilmente. Feci il praticantato nello studio di un mio docente, prima di trasferirmi a Milano in uno studio internazionale. Eppure ero solo un piccolo ingranaggio di un sistema molto più grande. Così compresi che quel mondo non sarebbe stato quello in cui avrei voluto lavorare a vita».
Scelta coraggiosa, alla quale cosa sarebbe seguito?
«Presi uno zaino e decisi di fare un viaggio lungo tutta l’Europa per conoscere culture diverse e vivere in libertà, prima di fare ritorno a Chieti. Andai nella Capanna di Betlemme, il centro che accoglie persone in diverse condizioni d’emergenza. Sarei dovuto rimanere poche settimane, invece vissi lì per un anno intero nel 2018. Stando a contatto quotidiano con vittime della tratta, persone affette da gravi disabilità o gente raccolta semplicemente dalla strada, ebbi chiaro cosa avrei voluto fare. Così sono partito per la Bolivia come cooperatore internazionale attraverso l’associazione umanitaria Amka, che avevo già conosciuto perché durante gli anni di studio avevo provato un’esperienza di tre settimane come volontario nella Repubblica Democratica del Congo occupandomi del sostegno sanitario e scolastico».
Bolivia e Congo indubbiamente sono due realtà molto diverse. Da dove deriva la scelta di andare proprio in questi luoghi?
«Sicuramente la Bolivia, già quando l’ho visitata nel 2018, era un paese in cui c’era una forte consapevolezza delle proprie radici indigene, mentre il Congo è ancora immischiato nel processo di cancellazione della propria cultura, diventando preda del business estero e di episodio di neo-colonialismo finalizzato a sfruttare le corpose ricchezze del territorio. I congolesi non sono consapevoli di ciò che possiedono. Poi a fine 2020 mi rimisi in viaggio, questa volta in direzione Guatemala».
Cosa spinge un cooperatore internazionale a cambiare così spesso?
«Personalmente, una grande curiosità nello scoprire diversità culturali, trovando nuovi spunti dalla gente comune che incontri. Ad esempio in Guatemala mi occupai di un progetto per il sostegno delle comunità agricole del nord, vivevo in un villaggio con gli ex guerriglieri del Far (Fuerzas Armadas Rebeldes), un gruppo guerrigliero che ha combattuto durante la guerra civile, iniziata nel 1960 e terminata con gli accordi di pace del 1996. In più sostenevamo la produzione femminile del caffè. A livello professionale, invece, il cooperatore deve ragionare sempre in termini brevi, vale a dire che la sua utilità è tale se, dopo circa massimo due anni di lavoro sul campo, permette agli abitanti del posto di gestire in autonomia i processi. Non dobbiamo restare a lungo per aiutare davvero, e uso il plurale perché condivido questa missione di vita con la mia compagna Elena e, da pochi mesi, con il nostro piccolo Sami che ho chiamato così per un mio carissimo amico afgano sempre sorridente e fastaiolo».
A tal proposito, come gestisce la sua attività con un figlio neonato, tra spostamenti e luoghi a tratti impervi nei quali vivere?
«Facciamo delle scelte in famiglia. Ad esempio nel 2023 sono andato da solo in Afghanistan con l’organizzazione Intersos. In quel caso non potevo portare mio figlio, occupandomi dei rifugiati afgani cacciati in modo coatto dal Pakistan, oltre alle vittime di guerra. Occorreva una scelta di buon senso. Già in Giordania, nell’ultimo anno, il discorso era ben diverso».
Parlando proprio della Giordania, lei ha documentato tramite i social il clima della frontiera con Israele. Alla luce della sua lunga esperienza umanitaria, come definisce il quadro che sta tristemente interessando il conflitto palestinese?
«Riscontro processi coloniali visti altrove. Gli attori e le dinamiche sono diverse eppure l’essenza dell’ideologia dietro la politica d’occupazione è la stessa della Bolivia o del Congo. Purtroppo però il popolo palestinese è vittima di uno sterminio incredibile, non solo negli ultimi mesi. Ad Amman avevo un ufficio nel quale collaboravo con tanti palestinesi i cui genitori e, ancor prima, i nonni furono cacciati dalle loro case sia nel 1948 sia nel 1967. Alcuni conservano ancora le chiavi di casa delle abitazioni dei propri antenati, quasi come per tenere ancora viva la speranza di potervi fare ritorno un giorno. Ma oggi quelle case in cui ci sono tanti ricordi dell’infanzia sono occupate dagli israeliani. La cosa davvero spiazzante è che, mentre ogni giorno si infrange ogni possibile diritto internazionale e umanitario, i Paesi limitrofi a maggioranza araba non ha mostrato una solidarietà compatta verso i fratelli palestinesi, permettendo una conquista coloniale senza scrupoli».
Se potesse descriverci quello che ha vissuto con un’immagine, quale sceglierebbe?
«Difficile dirlo, ne ho davvero tante. Da episodi specifici come il timore del lancio dei razzi tra Israele e l’Iran o la caduta su Amman dei droni che precipitavano al suolo. Una però mi ha segnato. Sono stato a Gerusalemme e Betlemme con la mia compagna e mio figlio di nove mesi. I militari israeliani ci hanno fatto scendere dal pullman per dei controlli, restando per oltre novanta minuti con tanti palestinesi fermi sotto il sole. Ragionavo da padre, preoccupato che Sami potesse sentirsi male per il caldo e ho compreso il dramma di milioni di bambini che ogni giorno sono sottoposti a situazioni anche ben più gravi. È stato un bagno di consapevolezza e tristezza in vista del futuro: se i bimbi palestinesi crescono così, che adulti saranno?».
Adesso è in Abruzzo. Ha già programmi per il futuro?
«A fine agosto è in programma il Festival delle cose belle che organizziamo a Pietralunga, in Umbria, dal 27 al 31, tra workshop esperienziali e tanta musica. Verso ottobre capiremo dove andare, sempre tenendo conto anche di Sami. Qualunque sarà la nostra prossima meta, non cambia lo spirito di metterci d’impegno per sostenere gli ultimi, facendo crescere mio figlio a contatto con culture diverse»