L’intervista al giudice Alfonso Sabella: «Riforme devastanti, la giustizia mai così in basso in 40 anni»

Il magistrato al Centro: «Vogliono salvare i colletti bianchi? Mettessero un salvacondotto, almeno sul resto potremmo lavorare»
ROMA. «Volete salvare i colletti bianchi? Allora reintroducete l’autorizzazione a procedere». La provocazione, durissima, arriva da un uomo che ha passato la vita a dare la caccia ai criminali. Non è un politico, è un magistrato. È Alfonso Sabella, attualmente giudice penale del tribunale di Roma. Pochi hanno la sua doppia visuale sul crimine in Italia. Come pubblico ministero, è l’uomo che negli anni Novanta, a Palermo, ha braccato e catturato latitanti del calibro di Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Pasquale Cuntrera. Come uomo delle istituzioni, è stato assessore alla Legalità a Roma, combattendo la microcriminalità e il malaffare della Capitale. Per questo la sua analisi delle riforme della giustizia non è mai astratta.
Parte dal caso di cronaca – come quello dei borseggiatori in fuga a Chieti grazie all’«interrogatorio preventivo» della riforma Nordio – e si trasforma in un atto d’accusa totale contro un sistema che definisce «illogico», «contraddittorio» e sull'orlo del collasso operativo. La sua tesi è brutale: le riforme Nordio e Cartabia, dietro la bandiera del «garantismo», sono in realtà un cortocircuito. Creano norme apparentemente severe che vengono annullate da eccezioni e cavilli (come la «condotta riparatoria»); indeboliscono la lotta alla violenza di genere (con la modifica delle soglie per le lesioni); e, soprattutto, sembrano scritte su misura per i «colletti bianchi», che non scappano, a scapito della lotta ai «criminali normali», che grazie a queste norme scompaiono.
La sua provocazione – «reintroducete l’autorizzazione a procedere» – è il culmine di un ragionamento amaro: se l’obiettivo è proteggere una casta, dice, «almeno dateci un salvacondotto per 2.000 persone e fateci lavorare sul resto».
Dottor Sabella, a Chieti, come prima a Venezia, tre borseggiatori sono spariti dopo aver ricevuto l’avviso per l’interrogatorio preventivo. Sono questi gli effetti pratici della riforma Nordio?
«Parliamo chiaro. Le riforme di questo governo, fermo restando l’assoluto rispetto che io nutro verso il legislatore, sono, da parte almeno di noi operatori, scarsamente comprensibili, perché non riusciamo mai a capire quale sia la reale direzione in cui vanno».
In che senso?
«Da un lato abbiamo una stretta securitaria. Pensiamo al decreto sicurezza, che adesso ha spostato sul magistrato l’onere di mandare i bambini in carcere con le loro mamme. Quindi da un lato si dice, di fatto, che le borseggiatrici devono essere rinchiuse in cella. Dall’altro lato, però, non si tocca la riforma, la cosiddetta riforma Cartabia, che ha reso questo reato, il borseggio, procedibile a querela di parte».
Cosa significa, nel pratico, che il borseggio è procedibile a querela?
«Ammesso e non concesso che si trovi un magistrato che abbia il coraggio – io non ce l’ho, personalmente – di mandare in carcere i bambini, devono esserci proprio situazioni decisamente devastanti perché io mi possa determinare a ritenere che esistano esigenze cautelari di così eccezionale rilevanza da spedire in cella donne incinte o che allattano. Ma il punto è che, essendo un reato procedibile a querela di parte, sono ammesse le condotte riparatorie».
Come funziona la condotta riparatoria?
«Come si sono organizzate ormai le borseggiatrici? Almeno a Roma glielo posso certificare. Fanno 100 furti, 99 gli vanno bene, uno gli va male. Per quello che gli va male, hanno un fondo con cui loro pagano la persona offesa e, quindi, vengono immediatamente scarcerate. Nel procedimento penale viene dichiarato il non luogo a procedere per condotta riparatoria. Questo è quello che mi capita tutte le sante settimane in cui sono di direttissima».
Lei cerca di applicare misure, ma la settimana dopo sono di nuovo fuori.
«Io cerco di applicargli la misura, non il carcere, ovviamente, laddove è possibile gli arresti domiciliari, o di allontanarle da Roma. Ma la settimana successiva mi arriva l'avvocato con tanto di vaglia o di bonifico effettuato alla persona offesa che, ovviamente, normalmente accetta quei soldi. E quindi il meccanismo funziona così».
C’è anche un aspetto sociale in questo fenomeno che la sola repressione non coglie?
«Queste povere criste fanno una vita di m... Mi scusi il francesismo. Vengono costrette a fare figli fino alla menopausa. La prima metà della loro vita la passano a fare figli e a rubare, la seconda metà la passano in carcere. Io ho certificati penali con cumuli di pene che raggiungono 27, 28, 29 anni. Se intervenissimo a livello sociale, cercando di tirar fuori queste ragazze da questo ambiente, probabilmente avremmo cominciato a vincere la battaglia. Ma su questo stiamo facendo praticamente nulla».
Questa contraddizione tra l’annuncio securitario e l'indebolimento delle norme si vede solo qui?
«L’altro esempio: si parla tanto di femminicidi, di violenza di genere, però nessuno ha mai pensato di riportare la procedibilità d’ufficio delle lesioni alle malattie superiori a 20 giorni com’era prima della Cartabia».
Qual è la conseguenza di questa modifica?
«Che cosa accade? La lesione più diffusa in ambito di violenza di genere, la frattura delle ossa nasali, ha una prognosi di 30 giorni. Siccome per procedere d’ufficio ora occorre una malattia superiore a 40 giorni, per questi casi, chiaramente, non si procede. I medici non hanno l’obbligo di denuncia e certi meccanismi di protezione dello Stato, anche indipendentemente dalla volontà della persona offesa che molto spesso è impaurita, non scattano».
Sembra un sistema illogico.
«Ci troviamo un sistema dove abbiamo fatto tutte riforme a macchia di leopardo, abbiamo un diritto penale che non è proprio compatibile con la logica. Se io partecipo a un rave party, rischio una pena fino a 6 anni. Se io mi metto con la mia 44 Magnum a sparare in piazza del Popolo, rischio una pena fino a 103 euro d’ammenda. Non le sembra una cosa illogica? Però è così».
Torniamo alla norma sull'interrogatorio preventivo. Se il sistema è così illogico, a chi giova questa norma?
«Io capisco tutte le norme garantistiche che vogliamo fare. Sinceramente, mi rendo conto che il colletto bianco normalmente non scappa quando tu l’avvisi cinque giorni prima. Ma il criminale normale, molto spesso, scappa».
Ma la legge prevede un’eccezione. Il gip può omettere l’interrogatorio preventivo se c’è pericolo di fuga.
«Io non entro, ovviamente, nei singoli casi. Però il pericolo di fuga deve essere specifico e concreto. Praticamente, l’indagato devi trovarlo o col biglietto in tasca dell’aereo o con le valigie fatte. Non puoi trarre il pericolo di fuga dalla gravità del reato. Devono essere altri elementi. Il fatto che sei senza fissa dimora non è elemento da cui ricavare la fuga. Diciamo che questa eccezione è difficilissima da applicare».
Se questa norma è mirata a tutelare i colletti bianchi, e nel farlo ostacola la giustizia ordinaria, qual è la sua proposta?
«Io, tempo fa, molto provocatoriamente, dicevo: “Siccome queste norme sembrano mirate, per così dire, ai colletti bianchi, non è meglio, a questo punto, se si reintroduce l’autorizzazione a procedere?”. Magari la estendiamo a sindaci, amministratori, presidenti di Regione, assessori e anche a un migliaio, 2.000 persone a scelta del governo».
Una sorta di salvacondotto?
«Sì, un salvacondotto. Ci dicessero: “Guardate, su queste persone non dovete esercitare l'azione penale”. Ma forse è meglio, almeno sul resto possiamo lavorare e garantire un minimo di sicurezza e di giustizia ai cittadini. Io, sa, oggi quasi quasi lo direi seriamente. Reintroducetela. In questo modo, se abbiamo gravi indizi di colpevolezza su una borseggiatrice, l’arrestiamo. Su un rapinatore, l’arrestiamo. E non gli diamo la possibilità di scappare».
Lei ha dato la caccia ai latitanti di mafia. Se queste norme fossero state in vigore durante le sue grandi inchieste?
«Guardi, a me avrebbe fatto molto peggio non tanto la norma sull’interrogatorio preventivo, perché per i mafiosi si continuano ad applicare le vecchie norme. A me avrebbe fatto molto male, invece, la riforma che hanno fatto delle intercettazioni telefoniche. Quella per me sarebbe stata devastante».
Perché la riforma delle intercettazioni sarebbe stata peggiore?
«Perché quella riforma prevede un termine temporale. E siccome non è stato richiamato l’articolo che ti consente di farle per le ricerche dei latitanti, io mi sarei trovato con indagini che non potevano durare oltre un certo momento. E quindi, conseguentemente, molti latitanti mafiosi, per cui ho fatto mesi di intercettazioni telefoniche, non sarei più riuscito a catturarli, perché avrei dovuto interromperle».
Oltre alle riforme, si parla in questi giorni di problemi tecnici, come l’app della giustizia che non funziona. La tecnologia è un altro fronte del collasso?
«Lo sa quanto ci mette il mio computer ad accendersi? Venticinque minuti. Poi servono altri 10 minuti perché parta Word. E con l’app restiamo a vedere la rotellina che gira. Questi scienziati del ministero ci hanno piazzato nelle camere di consiglio dei computer portatili, privi di lettore cd-rom. Il 99% dei nostri supporti informatici è su cd-rom. Dobbiamo andare a casa a leggerceli. La rete va in crash in continuazione. E sto parlando del tribunale di Roma».
Qual è la spiegazione che si dà per questo stato di paralisi operativa?
«L’unica spiegazione che riesco a dargli, ma spero veramente di sbagliarmi, è che per far passare la riforma della magistratura si sia deciso di paralizzare la giustizia. In maniera tale che i cittadini vadano a votare al referendum».
Sta dicendo che si paralizza il sistema per vincere un referendum?
«L’ha detto anche Nordio più volte: “I cittadini saranno chiamati a esprimersi: vi piace questa giustizia, sì o no?”. Ma la realtà è che se fosse questo il quesito, anch’io andrei a votare sì. E allora, per far questo, si continua a mantenere la giustizia in queste condizioni pietose. Io faccio il magistrato da quasi 40 anni. Non ho mai visto la giustizia penale così in basso. Il servizio che diamo ai cittadini è pessimo».
Può farci un esempio di come questa paralisi colpisce il cittadino?
«Pensi alla truffa assicurativa. Si consuma dove ha sede l’assicurazione, a Milano o Roma. Ma il falso incidente è denunciato a Trapani. I testimoni devono farsi centinaia di chilometri. Ma, se c’è un legittimo impedimento, devono tornare più volte, perdendo giorni di lavoro. Questo testimone vede la faccia del giudice, che sono io, che gli devo dire “vattene e ritorna”. E se non torna, lo devo sanzionare o fare accompagnare dalle forze dell'ordine come un criminale. Questa è purtroppo la giustizia ordinaria, di cui non interessa nulla a nessuno».
Lei ha più volte criticato la Riforma Cartabia. Qual è il bilancio oggi?
«Guardi, io vado dicendolo da un po’ di tempo: Cartabia delenda est. Quella riforma è devastante. L’udienza predibattimentale è un’udienza totalmente inutile. Siamo tutti d’accordo. Nella migliore delle ipotesi, ritarda di un anno i processi».
Perché un'udienza che tutti ritengono inutile non viene semplicemente superata?
«Il gip, quando si trova di fronte a una richiesta di rinvio a giudizio, ha due alternative. O fa una sentenza di non luogo a procedere e deve impiegare una ventina di giorni a scriverla, oppure in 30 secondi fa un decreto che dispone il giudizio. Un gip gravato da 200.000 cose, cosa sceglie umanamente? Manda a giudizio. Per ogni rinvio a giudizio, però, poi sorge un dibattimento che magari si conclude con il proscioglimento».
Come è stato possibile scrivere riforme che, a suo dire, gli operatori ritengono inutili?
«Io dico sempre che la riforma Cartabia è stata scritta da chi, in un tribunale, non ha mai messo piede o comunque non ci mette piede da 30 anni. Se la volevano fare, dovevano pigliare avvocati, pubblici ministeri, giudici, cancellieri, portarseli al ministero e chiedere loro: “Quali sono i problemi della giustizia? Come li possiamo risolvere?”. E invece ci si è affidati ai professori».
Un’ultima battuta sulla separazione delle carriere.
«A che serve? È totalmente inutile. Sento parlare di “assicurare la parità tra accusa e difesa”, ma è una grandissima cavolata. Pubblico ministero e avvocato non saranno mai pari. Devono essere pari al dibattimento, al processo. E lo sono già ampiamente».
Perché non possono essere “pari” nella fase delle indagini?
«Se io, pubblico ministero, sto processando Tizio per omicidio e mi arriva un video in cui risulta che a sparare è stato Caio, che cosa faccio? Ho l’obbligo di depositarlo, perché tutelo un interesse pubblico. Se io, avvocato, difendo Tizio, e mi arriva un video dove si vede Tizio che spara, che è colpevole. Io che faccio? Ho un dovere deontologico di non farlo, perché assisto il mio cliente. Quindi, nella fase delle indagini preliminari, pm e avvocato non possono essere mai pari».
Quale sarebbe il rischio di un pm separato dalla giurisdizione?
«Un pm separato e non sottoposto all'esecutivo saremmo l’unico paese al mondo ad averlo. Si vendono il Portogallo, ma è falso: lì il procuratore generale viene nominato dalla politica. Ma un altro dato: come lo valuteremmo il pubblico ministero, a questo punto? Sulla qualità dei suoi provvedimenti? No, sulla quantità. E noi, quindi, avremo un incremento enorme di processi che finirebbero con l’assoluzione. Perché il pm avrebbe interesse a mandare a giudizio la gente, non ad archiviare. Il risultato sarà che avremo un incremento enorme di processi che non saremo più in grado di gestire».
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