Se Trump si crede imperatore e si specchia nell’antica Roma

Il commento del latinista Francesco Berardi: «Trump è il fondatore dell’Impero americano, è il nuovo Augusto. Un popolo, spossato dalla crisi economica e morale, dà fiducia a chi promette di tornare alla grandezza di un tempo e di restaurare la tradizione»
Scusatemi, ma non è colpa mia se si continua a parlare di latino e di imperatori, perché non sono stato io ad annunciare l’accordo con l’Ucraina sulle “terre rare” e il loro prezioso tesoro con la formula della pax mineralis, né sono stato io a pubblicare sui social un video in cui si immagina la futura Gaza, ribattezzata Trump Gaza, con tanto di resort (vogliamo chiamarle terme?), palazzi intitolati a Trump e una gigantesca statua in oro del presidente degli Stati Uniti.
Sembrerebbe lo scherzo di un buontempone che si diverte con l’intelligenza artificiale e la megalomania dei potenti, ma in realtà si tratta di una sottile strategia comunicativa messa in atto dalla Casa Bianca, che usa la solennità della lingua latina e il marchio autorevole dell’Impero Romano per far passare un concetto importante: Trump è il fondatore dell’Impero americano, è il nuovo Augusto. E in effetti iniziò tutto così e ricordarne brevemente i primi passi sa più di cronaca che di storia: un popolo, stufo delle guerre condotte dentro e fuori casa, acclama l’uomo forte, che si presenta come il pacificatore, colui che avrebbe messo a tacere per sempre le armi (la famosa pax Augustea). Un popolo, spossato dalla crisi economica e morale, dà fiducia a chi promette di riportare Roma alla grandezza di un tempo (“Make Rome great again!” diremmo oggi) e di restaurare i valori della tradizione, favorendo matrimoni e natalità con sanzioni a celibi e arresto per gli adulteri, salvo avere una nipote, Giulia, che collezionò molti amanti.
Del resto, quest’uomo, al secolo Ottaviano, non si presentava come un dittatore: lasciò in vita le magistrature repubblicane, fece di tutto perché l’apparato statale sembrasse rimanere lo stesso: le nomine di consoli e di magistrati, i riti delle candidature e delle votazioni non si interruppero. Peccato, però, che concentrò su di sé una serie di poteri eccezionali, primo tra tutti il potere militare perpetuo (detto imperium, da qui il titolo di “imperatore” o, se vi suona meglio, “comandante in capo”) e mantenne il consolato, la più alta carica di Roma, praticamente per quasi tutta la vita. Il senato continuava a riunirsi, ma lui, il princeps, aveva il diritto di votare per primo e gli altri, chissà perché, votavano come lui. Per giustificare un potere illimitato assunse il titolo di Augusto, cioè “consacrato dagli auguri”, gli indovini che a Roma interpretavano la volontà divina attraverso il volo degli uccelli, come a dire che era l’uomo della provvidenza (lo stesso ha detto Steve Bannon di Trump), mandato a ristabilire l’ordine e la pace. Una macchina della propaganda, fatta di poeti e letterati di prim’ordine, anche autenticamente convinti delle buone intenzioni del potente (Virgilio, Orazio), prometteva una nuova età dell’oro, un mondo pacificato e prospero, e lo faceva con la forza suadente di una parola eccezionalmente elegante.
Fondò o ricostruì numerose città, tante nuove Gaza, cui diede il suo nome: la più famosa, la nostra Aosta (Augusta). Ben consapevole dell’importanza delle immagini per raggiungere gli strati sociali più umili, Augusto riempì Roma e le altre città di statue in suo onore, anche se quella che Trump mostra nel video ricorda più direttamente il famoso Colosso di Nerone, la statua alta 33 metri secondo Plinio il Vecchio, addirittura 102 metri secondo Svetonio: l’originale era in bronzo, mentre Trump immagina per sè una tutta d’oro. E tra statue gigantesche e terme di lusso, sacerdoti preposti al culto dell’imperatore (si chiamavano Augustales, leggi oggi Paola White e il suo ufficio della fede) e altari che celebravano la pace, la res publica, la “cosa di tutti”, ma gestita ormai da uno solo, restava formalmente in vita, ma sempre più svuotata di senso e di contenuto, per ridursi a un rito formale e ipocrita.
Passavano gli anni e con loro i primi imperatori e pian piano qualcuno cominciò ad accorgersene. All’inizio erano poche voci: molti erano ben disposti a sopportare tutto questo in nome della tranquillità e dell’ordine sociale; altri invece erano assuefatti: era diffusa l’idea che le forme di governo mutassero ciclicamente e che la democrazia, logoratasi nell’oclocrazia (nome antico per populismo) si trasformasse in tirannide per tornare prima o poi alla monarchia di un re illuminato e ricominciare il giro.
Ma la libertà, disse Pietro Calamandrei, è simile all’aria: ti accorgi della sua vitale importanza solo quando comincia a mancarti. E così anche a Roma giunse il tempo delle repressioni, delle voci soffocate dalle spade e dal veleno, degli strani incidenti e dei suicidi comandati. Ci si ridusse a sperare che al potere salisse un uomo magnanimo, disposto ad allentare la presa, per poter esclamare, con Tacito, il grande storico di Roma, pronto a scommettere su Traiano: “ora si torna a respirare” (Agricola, 3). Ma quel grido si rivelò, per secoli, un’illusione.
Nei corsi e ricorsi della storia, in che curva ci troviamo? E soprattutto: quando la Casa Bianca diventerà la domus Aurea?
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