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16 novembre

Oggi, ma nel 1922, a Roma, alla Camera dei deputati, presieduta da Enrico De Nicola, alle 15, il presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia Benito Mussolini teneva il suo primo intervento in quella veste dando vita a quello che passerà alla storia come “discorso del bivacco”. Il futuro Duce, tra minacce e promesse, rivendicando la vittoria delle camicie nere davanti alla Camera, presentava la lista dei ministri, tra i quali vi erano solo tre fascisti, ovvero: Alberto De Stefani, con delega al dicastero delle Finanze; Giovanni Giuriati, alle Terre liberate dal nemico, ossia le zone precedentemente occupate dagli austriaci; Aldo Oviglio, alla Giustizia. Mentre le competenze per Interni ed Esteri rimanevano appannaggio dello stesso Mussolini (nella foto, particolare, proprio in occasione della sua orazione, poco prima di prendere la parola, posto sotto lo scranno di De Nicola).

Alcuni passaggi della prolusione del figlio del fabbro di Predappio destavano non poco scalpore. Come: «[...] Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».

Il riferimento all’origine extraparlamentare del primo governo Mussolini e all’importante ruolo svolto dall’esercito privato di Benito Amilcare preannunciavano il poco spazio, che poi diverrà nullo, che sarebbe stato concesso alle opposizioni. I toni erano aggressivi e le espressioni utilizzate avevano carattere intimidatorio. Il rimando all’essere lui, Mussolini, l’unico italiano davvero in grado di traghettare il Belpaese verso un avvenire migliore non lasciava scampo a dubbi. La rivendicazione del legittimo uso della violenza, quale strumento per la conquista del potere, era fin troppo esplicita.

Il disprezzo per i parlamentari presenti anche. Gli onorevoli ne uscivano mortificati. I socialisti protestavano e l’antifascista Giuseppe Emanuele Modigliani esclamava a gran voce: “Viva il Parlamento!”. Seguirà l’arringa, più blanda, di Mussolini in Senato, assemblea capeggiata da Tommaso Tittoni, dove gli esponenti erano di nomina regia e non decretati dal confronto con le urne. Appuntamento col voto che, il 6 aprile 1924, proprio per poter conquistare “legalmente” la maggioranza a Montecitorio, Mussolini farà passare attraverso la legge elettorale promossa dal sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri Giacomo Acerbo, abruzzese di Loreto Aprutino, e in un clima elettorale di intimidazioni, brogli e violenze.