Palmoli

Famiglia del bosco, i legali presentano una nuova istanza: «I piccoli non sono isolati dal mondo, con i genitori vivono felici e frequentano altri bambini»

27 Dicembre 2025

Ecco le fotografie al vaglio del tribunale: i tre fratellini andavano al supermercatoal parco pubblico

PALMOLI. Un cucchiaino di plastica colorata, stretto tra le dita di un bambino seduto al tavolino di un bar, può diventare l’oggetto più importante di una battaglia legale che sta tenendo col fiato sospeso mezza Italia. Anche in quella scena apparentemente banale, in quel gesto automatico di portare alla bocca un po’ di gelato, può esserci la chiave per scardinare l’impianto accusatorio all’origine dell’allontanamento dei bambini del bosco di Palmoli da mamma Catherine Birmingham e da papà Nathan Trevallion. Non è solo una foto ricordo, una delle tante che intasano le gallerie degli smartphone di ogni genitore: è la prova materiale depositata dagli avvocati Marco Femminella e Danila Solinas sul tavolo del tribunale per i minorenni dell’Aquila per dimostrare che la narrazione di una famiglia integralista e fobica verso la modernità e i suoi derivati sintetici è una costruzione che non regge alla prova della realtà.

Il giorno della vigilia di Natale, i legali della coppia hanno depositato una nuova istanza per chiedere la revoca dell’ordinanza del 20 novembre, quella che ha decretato la sospensione della responsabilità genitoriale e il collocamento dei minori in comunità. La mossa arriva in un momento cruciale, a poche ore dalla notifica di un provvedimento che ha confermato la linea dura dei giudici.

Per capire il peso di quelle fotografie allegate all’istanza, bisogna tornare alle motivazioni che i magistrati hanno utilizzato per giustificare la separazione. Nell’ultima ordinanza si faceva riferimento a un episodio specifico, avvenuto durante il ricovero in ospedale per l’intossicazione da funghi, evento scatenante di tutta la vicenda. In quell’occasione, spiegano i giudici, i genitori si erano opposti all’uso del sondino naso-gastrico per i figli. Il tribunale ha interpretato quel rifiuto non come paura o apprensione, ma come una scelta ideologica radicale, scrivendo che l’opposizione era dovuta «verosimilmente poiché fatto di silicone o poliuretano». In pratica, si sosteneva che la famiglia del bosco rifiutasse le cure salvavita perché i presidi medici erano fatti di plastica, materiale incompatibile con la loro visione naturalista.

Le immagini depositate ora raccontano una storia diametralmente opposta. Nelle foto si vedono i bambini all’interno di un bar, immersi in un contesto di assoluta normalità sociale. Mangiano il gelato e lo fanno utilizzando proprio quei cucchiaini di plastica usa e getta che, secondo la ricostruzione dei giudici, avrebbero dovuto rappresentare un tabù invalicabile per la famiglia. Se i bambini usano la plastica per mangiare un dolce, argomentano i difensori, cade il teorema dell’integralismo. Il rifiuto del sondino in ospedale, dunque, non sarebbe stato dettato da una fobia per il materiale sintetico, ma da una più comune e comprensibile preoccupazione genitoriale verso una pratica invasiva, forse mal comunicata o percepita come aggressiva in quel momento di emergenza.

La galleria di immagini prodotta dalla difesa va a colmare anche altri vuoti di “modernità” imputati alla coppia. In un video, per esempio, si vedono i bimbi all’interno di una lavanderia self-service. Non stanno lavando i panni al fiume battendoli sulle pietre: estraggono indumenti da una lavatrice a gettoni, maneggiando tessuti igienizzati in un ambiente fatto di metallo, cestelli rotanti, luci al neon e pulsantiere elettroniche. Nel filmato si nota la disinvoltura con cui i piccoli interagiscono, segno di un’abitudine consolidata e non di uno spaesamento. Un altro scatto li ritrae in un bagno di un locale pubblico, mentre usano il lavandino: si vedono i bambini insaponarsi sotto il getto dell’acqua corrente, sfregano le mani con il sapone liquido erogato da un dispenser di plastica, si sciacquano nel lavabo di ceramica. È un gesto che cozza con la descrizione data dagli assistenti sociali di bambini intimoriti dal soffione della doccia della casa famiglia.

Ma il dossier fotografico non si ferma all’igiene o al cibo. Le istantanee mirano a demolire anche il secondo pilastro dell’accusa: l’isolamento sociale. Nelle carte dell’accusa, i bambini venivano descritti come piccoli eremiti, tagliati fuori dal mondo e dai coetanei, prigionieri di una bolla bucolica. Le foto allegate alla nuova istanza mostrano invece i tre fratelli mentre giocano felici e incontrano altri coetanei. Li si vede interagire e sorridere. Una foto di gruppo, in particolare, li immortala insieme a una piccola comitiva di altri bambini e adulti: sono vicini, si toccano, sorridono all’obiettivo senza timore, a testimonianza di una rete di volti amici e di legami sociali vivi. Anche l’immaginario di un’infanzia passata a giocare solo con pigne e legnetti viene ridimensionato drasticamente: spuntano immagini di uno scivolo colorato, rigorosamente in plastica gialla, su cui i bambini giocano all’interno di un parco. E anche quelle in cui i tre fratellini sono immortalati, all’interno di un centro commerciale, su due automobili e una motocicletta a gettoni.

C’è pure uno scatto in cui i bambini sono seduti attorno a un tavolo, che sembra quello di una cucina, impegnati a scrivere e disegnare su fogli bianchi. Hanno le matite in mano, la postura è composta, lo sguardo è fisso sul foglio. Altre immagini li ritraggono tra le corsie di un supermercato, mentre si muovono con disinvoltura tra scaffali pieni di merci colorate e prodotti confezionati. Non sembrano bambini spaventati dalla civiltà moderna, né alieni atterrati per sbaglio in un centro commerciale. Queste prove visive servono a dimostrare che la vita nel bosco di Palmoli non era una prigione, ma una scelta abitativa che non escludeva le interazioni con il resto della comunità locale.

L’istanza presentata il 24 dicembre nasce anche da un cortocircuito temporale segnalato dai legali. Il provvedimento che ha confermato la casa famiglia e disposto la perizia psichica, infatti, porta la data dell’11 dicembre, ma è stato notificato alle parti il 22 dicembre, a distanza di undici giorni. Nel mezzo, il 18 dicembre, la difesa aveva depositato una memoria difensiva ricca di atti e osservazioni. Ma l’ultima ordinanza non tiene in alcuna considerazione questa documentazione aggiuntiva. Ecco perché gli avvocati chiedono che il tribunale riesamini tutto alla luce dei nuovi elementi.

La battaglia si sposta ora su un piano strettamente tecnico-scientifico. Visto che i giudici hanno disposto una consulenza tecnica d’ufficio per valutare le capacità genitoriali e lo stato psicofisico dei minori, la famiglia ha deciso di non lasciare nulla al caso. Sono stati nominati due consulenti di parte di alto profilo: lo psichiatra Tonino Cantelmi e la psicologa Martina Aiello. Saranno loro a dover controbattere, punto su punto, alle valutazioni che verranno fatte dalla perita del tribunale.

Resta sullo sfondo, ma non meno importante, il clima di tensione che ha avvelenato i pozzi della comunicazione tra la famiglia e le istituzioni. Nell’istanza vengono sottolineate le frizioni e la reciproca diffidenza maturate tra mamma Catherine e l’assistente sociale incaricata del caso. Quella che nei rapporti ufficiali è stata bollata come «mancanza di collaborazione» o «chiusura ideologica» potrebbe essere letta, secondo la difesa, come la reazione difensiva di una madre che si è sentita giudicata a priori.

Una diffidenza dove ogni gesto veniva interpretato come la conferma di un pregiudizio, mentre la realtà dei cucchiaini di plastica e dei giochi al parco veniva lasciata fuori dalla porta del tribunale.

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