Famiglia nel bosco, la storia: dal ricovero per i funghi all’affidamento sospeso

La corsa in ospedale dopo l’avvelenamento, poi le segnalazioni alla Procura. Tra le cause del provvedimento ci sono l’istruzione assente e l’isolamento totale
PALMOLI. Nel cuore dei boschi di Palmoli, dove il tempo si misura con il sole che filtra tra le foglie e il profumo del legno bruciato, tre bambini – due gemelli di sei e la maggiore di otto – crescevano convinti che il mondo fosse un luogo buono e semplice. La loro scuola erano gli alberi, il vento, la terra sotto i piedi; i loro amici un cavallo, un asino, due cani e un’altalena appesa a un ramo. È lì, tra la quiete degli animali e il silenzio delle colline, che Catherine Birmingham, 45 anni, australiana, e suo marito, Nathan Trevallion, 51 anni, inglese, avevano costruito la loro fiaba: una vita scelta, protetta, quasi scolpita contro lo scorrere frenetico della società.
Ma poi arriva una mattina d’ottobre dell’anno scorso e la favola si spezza: un’intossicazione da funghi, la corsa in ospedale, l’arrivo dei carabinieri che parlano di una situazione di degrado e abbandono di un immobile senza luce, gas e acqua corrente. Il ricovero in ospedale termina senza gravi conseguenze, ma parte la segnalazione alla procura per i minorenni dell’Aquila: il bosco, che fino a quel momento era stato la loro corazza, si trasforma in un motivo di preoccupazione. La potestà genitoriale viene sospesa. La vicenda esplode qualche settimana fa, il 31 ottobre, quando il Centro pubblica la notizia: telecamere, microfoni, titoli, polemiche. Da quel giorno, gli occhi delle istituzioni non si distolgono e la famiglia di Palmoli divide l’opinione pubblica, diventando così un caso nazionale.
La scelta di Catherine e Nathan ha origine molto prima del trasferimento a Palmoli, nel Vastese. Si conoscono lavorando nel settore turistico tra Europa e Australia: viaggiano, cambiano Paesi, accumulano esperienze e convinzioni. E quando nascono i loro primi figli, si rendono conto che non vogliono una vita scandita da uffici, orari e obiettivi, in una società dove vige la regola della performance e tutto il resto viene dopo. Cercano così un luogo dove crescere i bimbi in libertà, dove l’istruzione sia un atto spontaneo e non imposto. Lo trovano in Abruzzo, in una casa senza fronzoli: niente termosifoni, niente scuola, niente pediatra, niente elettricità. Allo stesso tempo, raccontano loro, i bambini imparano tre lingue, riconoscono le erbe aromatiche e imparano ad accudire gli animali.
I genitori, infatti, ritengono che la scuola spenga il naturale desiderio di scoprire il mondo e che la società forzata crei spesso solo competizione, insicurezza e ferite che non si vedono. Per loro, essere genitori significa difendere i figli da una società che ritengono malata nel profondo: troppo veloce, troppo violenta. Ma quella che è una scelta educativa, per lo Stato assume un’altra definizione: isolamento. I primi controlli degli assistenti sociali iniziano nel 2022, ma la famiglia – dicono i Servizi sociali – è diffidente e chiude la porta a un sistema in cui non crede. Ma la procedura giudiziaria va avanti e il bosco, lentamente, smette di essere invisibile.
L’ottobre del 2024 è la linea che separa il “prima” dal “dopo”: la famiglia raccoglie funghi, li cucina, li mangia senza sospetti. I bambini, però, iniziano a stare male. Si recano, allora, all’ospedale di Vasto. Non si tratta di una grave intossicazione, poche ore e vengono dimessi. Ma, contemporaneamente, parte una segnalazione che raggiunge il tribunale per i minorenni dell’Aquila e le autorità apprendono l’inaspettato: istruzione assente, isolamento totale, controlli medici inesistenti e condizioni abitative considerate sotto gli standard. Non solo: mancano gli impianti elettrico, idrico e termico e, soprattutto, un certificato che dimostra la sicurezza statica dell’edificio. I magistrati aprono un procedimento urgente: si valutano relazioni, fotografie e il livello d’istruzione dei bambini.
Per la procura, il diritto dei minori diventa la bussola del giudizio. Ed è subito scontro sull’istruzione parentale perché, pur essendo riconosciuta dalla Costituzione, deve essere documentata e verificata. A tutto questo si aggiungono l’assenza di vaccinazioni certificate e di controlli pediatrici. Tuttavia, per la legge, i bambini devono essere protetti non solo dal presente, ma anche dal futuro. Catherine e Nathan si oppongono: spiegano, scrivono, difendono la loro scelta. Parlano di amore, di cura quotidiana e stimoli reali. Ai genitori, dunque, il coraggio non manca: sono convinti che la realtà urbana ferisca i bambini nell’autostima, nel carattere e nel rispetto dei propri tempi.
Credono che l’istruzione tradizionale serva più a formare cittadini obbedienti che persone libere, insegnando ai figli il coraggio di esplorare e non il timore del giudizio. Anche i nonni testimoniano che i piccoli crescono amati e nutriti. Ma la giustizia minorile ragiona nei termini di ciò che è misurabile: l’amore non basta come prova. E la macchina giudiziaria non si ferma perché, in questo caso, il nodo decisivo è un altro: ai fratellini non può essere imposta una vita isolata e senza contatti con i coetanei. Una vita che, per quanto poetica, nega quasi totalmente relazioni sociali.
Il sogno di condurre una vita fuori dal comune termina giovedì scorso, quando, all’improvviso, lo Stato bussa alla porta e i bimbi vengono portati in una casa famiglia a Vasto. La madre li segue, è nella stessa struttura, ma con limitazioni precise: deve dormire in una stanza separata, al piano superiore. Il padre, invece, resta nel bosco, tra ricordi che – fino a poche ore prima – erano semplicemente vita. Perché, adesso, la casa famiglia di Vasto è la loro nuova realtà: regole, orari e visite mediche. La madre è presente ogni giorno e, durante le ore consentite, riempie con amore spazi temporali sempre più stretti. Mentre Nathan vive la parte più dura: il silenzio. Per lui la casa è diventata un museo dell’assenza dove ogni animale aspetta il richiamo dei piccoli padroni e ogni giocattolo fermo la mano che lo ha lasciato.
Carte alla mano, la vita nel bosco, così com’è, non tutela i minori. Primo punto: istruzione. La scuola è necessaria per lo sviluppo cognitivo e sociale e, senza un percorso riconosciuto, i bambini rischiano un futuro di esclusione. Secondo punto: sanità. L’assenza di vaccinazione e controlli pediatrici viene considerata pericolosa. Terzo punto: vivibilità dell’abitazione. La casa è ritenuta priva di servizi minimi e pericolosa in caso di emergenza. Ancora: socialità. I bambini non hanno rapporti con i coetanei, elemento che ostacola la crescita emotiva e relazionale. Catherine e Nathan, dunque, hanno garantito amore, ma non strumenti. E lo Stato, per legge, deve intervenire.
Quando la vicenda esce dai confini di Palmoli, l’Italia si divide, ma non troppo. Da un lato c’è chi sostiene l’intervento giudiziario, parlando di «dovere sociale». Dall’altro – ed è la corrente che prevale – ci sono milioni di persone che difendono il diritto di crescere i figli in mezzo alla natura, accusando lo Stato di un controllo eccessivo. Ma per il presidente della Regione, Marco Marsilio, non ci sono dubbi: «Questa famiglia non ha fatto male a nessuno». Politici del territorio si muovono in Parlamento, associazioni per la libertà educativa aprono il dibattito, le trasmissioni televisive discutono senza sosta. E la presidente del consiglio, Giorgia Meloni, incontra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per valutare se inviare o meno ispettori del ministero affinché valutino il caso. L’azione congiunta di Meloni e Nordio riceve, poi, il plauso del leader della Lega, Matteo Salvini. E la speranza si accende. Una storia sospesa, perché Catherine e Nathan impugneranno il provvedimento dei giudici. Ma una cosa è certa: i genitori dovranno accettare un compromesso tra natura e regole.
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