Uccise la madre, cancellato l’ergastolo: «Era turbato, lei lo aggredì per prima»

Delitto di Bucchianico, la sentenza. Ecco perché la Corte d’assise d’appello ha ridotto la pena nei confronti di Cristiano De Vincentiis a 24 anni di carcere: «Sì all’attenuante della provocazione. Le 34 coltellate non vanno giustificate, ma la sua reazione non è stata pretestuosa»
BUCCHIANICO. Una sentenza che non misura la ferocia di un’azione, ma il peso del fiammifero che l’ha scatenata. La Corte d’assise d’appello dell’Aquila riscrive la storia giudiziaria di Cristiano De Vincentiis, l’uomo che il 19 ottobre 2022 a Bucchianico uccise la madre Paola con 34 coltellate, cancellando la condanna all’ergastolo inflitta in primo grado e rideterminando la pena a 24 anni di reclusione. Un verdetto di 39 pagine di motivazione che ruota attorno a una singola, cruciale parola: provocazione.
Per i giudici di secondo grado (presidente Alfonso Grimaldi, consigliere relatore Laura D’Arcangelo), la furia omicida del figlio fu la risposta a un’aggressione ingiusta e iniziale della madre, un fattore che, pur non cancellando l’orrore del gesto, ne ha cambiato radicalmente l’inquadramento giuridico e il destino. Ora è scontato il ricorso in Cassazione sia dell’imputato, difeso dall’avvocato Gian Luca Totani, sia della procura generale, che aveva sollecitato la conferma del carcere a vita. La cronaca di quella mattina inizia con l’arrivo dei soccorritori del 118, che trovano Cristiano De Vincentiis «per le scale, fuori alla porta, tutto insanguinato, mezzo nudo». È lui stesso a confessare, ripetendo: «Ma guarda cosa ho dovuto fare. Ho ucciso mia madre». Una confessione seguita da una richiesta lucida: l’uomo «aveva necessità di parlare con l’autorità giudiziaria per raccontare la sua versione dei fatti». Quella versione parte da un dramma domestico esploso in una spirale di violenza inaudita.
Secondo la ricostruzione, confermata in entrambi i gradi di giudizio, fu Paola De Vincentiis, 69 anni, ad aggredire per prima il figlio Cristiano, oggi 53 anni, mentre dormiva. Entrò nella sua camera da letto armata di un coltello da cucina con una lama di 20 centimetri e di uno schiaccianoci, colpendolo al petto e al capo mentre si trovava ancora disteso sul letto. Ne nacque una colluttazione furiosa, al termine della quale De Vincentiis riuscì a disarmare la madre, raccontando poi agli inquirenti con agghiacciante lucidità: «Finalmente ci so’ riuscito, però mi so’ spappolato la mano qua. E poi gli ho dato la stessa minestra».
A quel punto, la sua reazione travalicò ogni confine. Impugnando lo stesso coltello, anziché allontanarsi, si scagliò sul genitore, colpendola dieci volte al torace e, una volta che la donna era crollata a terra, infierendo sulla sua schiena con altre 24 coltellate.
In primo grado, la Corte d’assise di Chieti, accogliendo la richiesta del pm Giancarlo Ciani, aveva ritenuto che l’aggressione della madre fosse stata solo un «pretesto meramente occasionale» di cui l’imputato avrebbe approfittato «per dare sfogo alle proprie prepotenze e alla propria aggressività verso la madre».
A sostegno di questa tesi, i giudici avevano valorizzato il movente economico, ricostruito attraverso le testimonianze – prima raccolte dai carabinieri, poi confermate in aula – della zia dell’imputato, alla quale la vittima «aveva confessato di temere per la propria vita qualora non avesse assecondato le pretese del figlio», e del parroco di Bucchianico. Un rancore profondo, che De Vincentiis avrebbe manifestato anche in carcere, dove, parlando con i compagni di cella, avrebbe definito la madre «p..., m..., bastarda», arrivando a dire: «Per quella p... guarda dove mi trovo, quando esco vado a urinare sulla tomba». La condanna all'ergastolo si fondava su questa lettura: un delitto sorretto da un dolo pieno, non una reazione d’impeto, data la «grave e macroscopica sproporzione» tra l’offesa e la reazione.
La Corte d’assise d’appello ha ribaltato questa interpretazione, accogliendo il motivo difensivo sull’attenuante della provocazione. Per i giudici aquilani, l’attacco della madre fu un «fatto ingiusto altrui» di tale gravità da scatenare uno «stato d’ira» che ha un nesso di «causalità psicologica» diretto con la reazione del figlio. La Corte ha ritenuto che la sproporzione tra l’attacco iniziale e la reazione finale non fosse sufficiente a interrompere questo legame. L’aggressione subita nel sonno, si legge nelle motivazioni, ha innescato un «profondissimo turbamento emotivo» che spiega, pur non giustificandola, l’efferata condotta successiva. La reazione di De Vincentiis, per quanto brutale, non fu un pretesto – dicono ancora i giudici aquilani – ma la conseguenza diretta di un’offesa ricevuta, un’azione che i giudici definiscono «sostanzialmente simmetrica a quella offensiva» subita.
Pur concedendo questa fondamentale attenuante, i giudici hanno respinto le altre istanze difensive. È stata esclusa la legittima difesa, poiché il pericolo non era più attuale una volta che la madre era stata disarmata. Rigettato anche il vizio parziale di mente: le perizie hanno accertato un «funzionamento intellettivo limite» ma non una compromissione della capacità di intendere e di volere al momento del fatto. Nel bilanciamento finale, l’attenuante della provocazione è stata giudicata equivalente all’aggravante di aver ucciso la madre, portando la pena a 24 anni di reclusione. Un’aggressione ha cancellato una vita. Un’altra aggressione ha cancellato l’ergastolo.
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