«Vattene, puzzi, devi stare lontano»: 15enne insultato e pestato sul bus dopo scuola

I violenti sono due cugini di 19 anni finiti ora sotto processo. La vittima: «Non sono riuscito a reagire». La madre del ragazzino picchiato: «È tornato a casa col volto pieno di sangue, l’ho portato in ospedale»
CHIETI. «Vattene via, tu puzzi». E subito dopo: «Non ci stare vicino». L’insulto precede l’esplosione della violenza. È un attimo che si consuma nella banalità feroce di un ritorno a casa da scuola, su un autobus del trasporto pubblico. La vittima designata, un ragazzino di 15 anni. Gli aggressori, secondo l’accusa, due cugini, oggi diciannovenni. Il teatro è un pullman che collega una scuola superiore di Ortona al paese di residenza dello studente. Ma quel viaggio quotidiano si interrompe in ospedale, con il volto del quindicenne ridotto a una maschera di sangue e una diagnosi che sottolinea la brutalità di quel pestaggio: «Apprezzabile menomazione della funzione masticatoria». Oltre venti giorni di prognosi. Per un insulto, una parola di troppo, forse per nulla. Ora quella violenza cerca giustizia nell’aula del tribunale di Chieti.
Ieri, davanti al giudice Luca De Ninis, è il giorno delle testimonianze. Parla la vittima, il ragazzo è assistito dall’avvocato Antonio De Marco. La sua voce ricostruisce la spirale di vessazioni che precedono le botte. Rispondendo al pubblico ministero d’aula, Simonetta Aleo, il giovane ripercorre la giornata: «Quel giorno sono stato preso di mira da due cugini. Già in passato mi avevano insultato». L’aggressione verbale inizia prima di salire sul mezzo, alla fermata dell’autobus. «Mi hanno infastidito e deriso», racconta il quindicenne, «facendomi fare brutta figura con gli altri ragazzi che erano presenti».
La provocazione cerca una reazione, e la reazione arriva, ma è solo verbale. Una replica affilata, quella di un adolescente che cerca di difendersi a parole: «Meglio puzzare, che puzzare di fumo».
È il pretesto. Quello che accade dopo è un pestaggio a due contro uno, in un autobus pieno di altri ragazzi. «Quando siamo saliti sul pullman, io ho preso le botte e basta». Il racconto in aula è un flash. «Dopo essere stato colpito dal primo ragazzo, io ho cercato di reagire. Ma non ci sono riuscito, perché l’altro ragazzo mi ha tirato un pugno tra il naso e la bocca».
Il sangue inizia a scorrere copiosamente. E, attorno, l’indifferenza. «C’erano tanti altri ragazzi sull’autobus, ma nessun altro è intervenuto». Un silenzio che pesa quanto i pugni.
Sul banco dei testimoni sale anche l’autista di quel pullman. Oggi è in pensione. La sua deposizione fotografa la scena dal suo specchietto retrovisore. «Appena sono ripartito», argomenta l’uomo, «ho sentito delle urla, mi sono subito voltato verso il corridoio del mezzo e ho fermato l’autobus». Qualcuno gli grida: «Stanno facendo a botte». L’autista si alza. Vede il giovane «sanguinante» e aggiunge che «è stato peraltro oggetto di uno sputo», a suggellare l’umiliazione. «Ho detto che avrei chiamato i soccorsi, ma lui non ha voluto». L’autista, di fronte al rifiuto del ragazzo, forse spaventato, forse desideroso solo di tornare a casa, riaccende il motore. «A quel punto la situazione si è tranquillizzata e sono ripartito. Una ventina di minuti dopo siamo arrivati in paese. Nel tragitto non è successo altro».
L’ultimo atto di quella giornata lo racconta la madre del ragazzo, anche lei chiamata a testimoniare, che denunciò tutto ai carabinieri di Ortona. Il suo racconto è il dolore di un genitore di fronte all’inspiegabile. «Mio figlio è tornato a casa con il volto pieno di sangue. Io l’ho portato subito in ospedale. Aveva anche un dente rotto». Poi, il resoconto che il figlio le ha fatto, ancora sotto choc: «Mi ha raccontato che gli avevano detto parolacce, lui aveva risposto e poi lo avevano preso a pugni». Due testimoni della difesa, ovvero ragazzi presenti quel giorno, dichiarano invece che non c’è stata alcuna aggressione. Anzi: sarebbe stata la vittima, a loro dire, a innescare la discussione abbassando i pantaloni a uno degli imputati.
Il processo dovrà ora ricostruire le responsabilità. I due cugini, di origine macedone, difesi dagli avvocati Delia Verna e Antonio Di Campli, rispondono di concorso in lesioni personali aggravate. L’accusa, formulata dal pubblico ministero Lucia Anna Campo, sottolinea la gravità delle conseguenze. Ma in quell’aula di Chieti, oltre alla menomazione fisica, resta il peso di un’aggressione consumata su un mezzo pubblico, davanti a coetanei immobili, e la ferita di un quindicenne costretto a difendersi prima dagli insulti e poi dalla violenza cieca.
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