Lanciano

Vigilessa di 36 anni esclusa dal concorso per un tatuaggio: ora ricorre al Consiglio di Stato

13 Novembre 2025

La donna lancianese non ammessa alla prova da istruttore della Polizia locale: continua la sua battaglia dopo la bocciatura dello scorso giugno al Tar. Gli avvocati puntano sulla «discriminazione tra donne e uomini causata dalla divisa differente»

LANCIANO. «Valutare la visibilità dei tatuaggi in maniera omogenea, sulla scorta dello stesso vestiario e, quindi, indipendentemente dal sesso del candidato». È quello che chiede l'aspirante vigilessa di Lanciano, T.G., 36 anni, esclusa dal concorso di polizia locale per via di alcuni tatuaggi sui piedi. La donna ha infatti deciso di andare fino in fondo nella sua battaglia, presentando ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar di Pescara che, lo scorso 3 giugno, aveva stabilito che nel suo caso non esiste una discriminazione uomo-donna. Di diverso avviso è la candidata, assistita dagli avvocati Amedeo Di Odoardo e Fabio Caprioni di Teramo (il ricorso è a firma dell'avvocato Claudio Giancola).

L'udienza è fissata per il prossimo 12 marzo. Superate le prove dell'interpello del Comune di Lanciano per la copertura di 10 posti da istruttore di polizia locale, al successivo esame della commissione medica della polizia di Stato, T.G. era stata esclusa per la presenza sul corpo di tatuaggi che «per estensione, posizione e visibilità» non sarebbero coperti dall’uniforme - la gonna nel caso delle donne - come invece previsto nel regolamento per gli appartenenti alle forze dell'ordine. Per la ricorrente un motivo di discriminazione in quanto donna.

Il Tar Abruzzo ha invece rigettato il ricorso sul presupposto che anche gli uomini, indossando la divisa maschile estiva, sarebbero stati esclusi per i tatuaggi parimenti visibili. «L'eccezione tirata fuori dai giudici di primo grado non era stata eccepita e su di essa non è stata fatta alcuna verifica», sostiene l'avvocato Di Odoardo, «tra l'altro, qualora un uomo avesse indossato i pantaloni corti, i tatuaggi non sarebbero stati visibili in quanto coperti dai calzini. Se il metro di valutazione fosse quello del pantalone corto, la nostra assistita doveva essere ritenuta idonea al pari di un uomo. Invece la valutazione circa la discriminatorietà o meno», precisa il legale, «deve essere fatta tenendo in considerazione l'uniforme di ordinanza, che per gli uomini è costituita dai pantaloni e per le donne dalle gonne. Da ciò deriva la discriminazione».

Se fosse stata presa a riferimento la stessa uniforme, ovvero i pantaloni previsti per il personale di sesso maschile, «i tatuaggi non sarebbero risultati visibili», è la tesi su cui si fonda il ricorso. Il mancato utilizzo di un unico parametro di riferimento comporta «una palese discriminazione delle donne». E ancora: «in nessun atto dell’amministrazione vi è una ragionevole motivazione circa la necessità che le donne utilizzino la gonna in luogo del pantalone». «Il punto», chiude l'avvocato Di Odoardo, «è stabilire se la discrezionalità della pubblica amministrazione debba incontrare il limite della non discriminazione». La parola torna ai giudici.