Comunicato Stampa: “Rammenti e somari”, la poesia che ricuce natura e comunità al passo delle stagioni

30 Ottobre 2025

C’è un’ora del giorno in cui l’aria si fa più densa e le cose sembrano chiamare per nome chi le guarda. I campi trattengono un odore di pane e ferro, mentre il vento pettina le erbe con una pazienza che rassicura. In quell’ora, il pensiero scopre un ritmo che sembra provenire da lontano. La metrica si stabilizza su un battito costante, mentre il pensiero si muove in diagonale, raggiunge le cose, le affianca e le lascia parlare. Così si entra tra le pagine di un libro che chiede di essere letto seguendo il tempo del respiro .
“Rammenti e somari” di Andrea Marrocco , pubblicato per il Gruppo Albatros Il Filo , è una silloge che si affida alla concretezza del mondo per arrivare all’essenziale. Il suo gesto è quello di chi conduce il lettore fuori dal fragore del quotidiano, lo porta su un crinale silenzioso e gli indica il fluire della vita con domande che non cercano risposte definitive. La natura , così, si trasforma in interlocutrice e maestra. La poesia di Marrocco chiede di fermarsi per riconsegnarci a una dimensione lenta , riflessiva, capace di dare una diversa prospettiva al movimento della vita, mentre lo stile resta polifonico e sperimentale , con una punteggiatura “anarchica” , un verso libero, anafore e ripetizioni che alzano la soglia musicale del testo. 
Il registro della silloge alterna morbidezze e ruvidità . Le pennellate possono sciogliersi in acquerelli di campagna, come anche prendere spessore dai contrasti caravaggeschi quando il dettato s’incide come scalpello. Il lessico attinge al parlato, abbraccia un impasto dialettale agli echi aulici, costruisce una cadenza che sembra chiedere una lettura a voce alta. 
La natura in “Rammenti e somari” entra in scena come soggetto che sente e decide. Gli animali custodiscono segreti e passaggi, le piante hanno un temperamento, il clima stesso sembra possedere le proprie intenzioni. Si costruisce così un alfabeto di simboli capace di nominare sentimenti ed emozioni, la cui carica sfiora il trascendente. Il tempo ha un andamento circolare, le stagioni si chiamano e si rispondono. L’inverno sospende, l’estate rammaglia, l’autunno colora di carminio, infine la primavera sancisce le partenze. Il calendario è una ruota attraverso la quale matura ogni ritorno. 
La lingua mescola lirismo e impasti di parlato. Il ritmo sa farsi spezzato e concitato, poi disteso e cantabile. Gli enjambement cercano una respirazione interna e un’oralità che lavora per gradini, con scarti repentini e ritorni circolari. L’impressione è di ascoltare una voce che avanza per figurazioni, con catene nominali e verbi in posizione esposta, mentre la punteggiatura pratica sospensioni e fenditure. 
Le poesie si offrono come stanze comunicanti. Ci si muove tra scene d’alba, cucine, cornicioni, campane, bestiari civili. L’incipit di “Terra Natìa” condensa un manifesto poetico: «Terra natìa il sole è sorto c’è / una gallina chioccia nell’orto… / le campane suonano alla primavera / una ghiandaia canta sul tetto / piumata di cielo e terra». La percezione corre dal basso verso l’alto, dall’orto al tetto, dal canto all’atmosfera, mentre il gesto verbale lega elementi concreti e visioni di respiro cosmico. “Notte” trasforma la veglia in teatro minimo. La finestra è una platea e l’elenco degli esseri animali funziona come partitura corale: «Io nottambulo / affacciato sulla finestra / ammiro il giubilo della / notte di San Lorenzo… / le fusa… il grillo… l’usignolo… / le civette… il pipistrello… il somarello». L’accumulo crea moto, la giustapposizione taglia il respiro in micro-frasi che lavorano per timbri sonori. In questo contesto l’oscurità si mette in ascolto, perché il desiderio addomestica le ombre. 
“Ho sognato” costruisce un catalogo visionario e, insieme, documentario: «Ho sognato un fiore e / delle bare… i sanpietrini e santini… / un somaro cieco… / una cantina trapelava di vino… / un affresco dell’aldilà». Il sogno rientra nella realtà come una cinepresa che registra vita e morte nello stesso carrello. L’effetto è quasi rabdomantico: il verso tocca la materia come uno strumento che sente l’acqua sottoterra. 
La figura del somaro , già evocata nel titolo, diventa simbolo di pazienza e tenacia . Anche l’asino “paesano” appare nella giornata di pioggia primaverile, con campane e suore che invocano dal santuario: la scena di “Nel dì primaverile” unisce devozione e infanzia in un quadro di suoni e gesti che restituisce l’unità delle cose. 
La costruzione del verso tiene insieme immagini-emblema, sinestesie e personificazioni. La neve parla, la luna sorride, la nuvola ha un’anima, le capre ricevono gli insegnamenti del bosco. In “L’anima rifugia nel bosco”, l’evocazione fonde eco pascoliane e una pratica concreta del camminare: «tralascio il mormorio della ciarla fiumana… / la voce del bosco / esprima armonia coi cardellini… / l’anima di varia fra gli ornamenti…». Il bosco, tra queste immagini vivide e rasserenanti, costruisce una sintassi nuova che guida il respiro. 
La sezione delle liriche sull’anima è un piccolo canzoniere nella canzone generale. Più che una cella privata, l’anima si tramuta in queste pagine in un patio dalle mille porte. “Aprile nell’anima” ascolta il mese come persona: «l’aria di aprile è clemente… / il somaro accostato al pero raglia… / il giubilo… il prato è fiorito… / il cielo è tinto di arancione». “Anima astratta” pone la figura in un chiaroscuro quasi pittorico, con il “novilunio di Modigliani” che accende il verso in un taglio di profilo. La verticalità dei versi produce un’oscillazione tra immagine e gesto, provocando l’effetto di un turbamento controllato che reca con sé una promessa di approdo. 
L’anima, in questa raccolta, non abita un altare, bensì un’aia. Si lascia pettinare dal vento, si scalda a mezzogiorno, si raffredda la sera, si ingentilisce in aprile, si tinge di carminio a settembre. Ha un’andatura che imita le stagioni e ne riconosce i messaggeri: uccelli, stelle, campane, ciuchi, ghiaie, rivi, panni stesi. L’anima è uno strumento a corde che suona quando le mani imparano la distanza giusta tra presa e rilascio e la poesia di Marrocco accorda quelle corde con pazienza artigiana. 
Tra le liriche che indagano la geografia affettiva spicca “Souvenir territoriale” , un itinerario interno conquistato in pochi tratti: l’alto cumulo “come un cappellaio sui papaveri”, il sole che indora il grembo delle campagne, il sorriso delle vigne, l’animo settembrino che si veste. L’immagine del “souvenir” non corrisponde all’innesco di un percorso più ampio, nel quale ogni luogo diventa portatore di una virtù che si riaccende quando lo si nomina. 
Nei quadri civili la poesia aggiorna il registro e porta il paese sulla pagina con nomi e ferite riconoscibili. “Accumoli sbrandellata” incornicia il dopo sisma in un bianco e nero pudico, tra macerie e mani che ricuciono. “Affresco della speranza” rialza lo sguardo e disegna una topografia di voci, uccelli, settembre che torna lavoro e fiducia. L’attenzione ai gesti minimi valorizza chi resta, chi semina, chi riapre botteghe. La cronaca non si gonfia e non urla, entra con passo misurato e si affida a simboli chiari. Il risultato costruisce memoria condivisa e restituisce una dignità concreta al presente di tutti.
Chiudendo il volume si torna all’ora iniziale. Un odore di mosto e bucato, un grillo a bordo pagina, una ghiandaia che prende il tetto come un palco. “Rammenti e somari” calibra il passo sul ritmo delle stagioni per ritrovare un paesaggio interiore che non coincide con l’intimità chiusa, ma rammenda con fili di terra il tessuto che tiene insieme esperienza e pensiero. Ogni lettore che cerchi una voce capace di far risuonare il primordiale nel quotidiano troverà in queste pagine un varco. E troverà, insieme, un invito: rientrare nel mondo con un’attenzione rinnovata, lasciando che il respiro del testo continui a scandire le ore, mentre l’anima impara di nuovo a nominare le cose con gentile fermezza.
 

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