Di Pietrantonio sulla possibilità di un dialetto semplificato: «Operazione falsa e inutile»

18 Settembre 2025

La scrittrice si esprime dopo la proposta del direttore della Notte dei Serpenti: «Melozzi accetti le critiche. La lingua non si impone, deve nascere dal basso»

PESCARA. Di koinè abruzzese, di dialetto pop Donatella Di Pietrantonio non ne vuole sentir parlare. E non soltanto perché «quei campi della “Notte dei serpenti” io li ho vissuti», ma anche perché «quello della lingua è un processo naturale, non si impone dall’alto». Come il Maestro Enrico Melozzi, suo rivale nella querelle linguistica, la scrittrice Premio Strega è teramana, ma cresciuta tra Arsita a Penne. Per questo conosce le contaminazioni linguistiche, le varianti dialettali, la differenza di costumi e comportamenti, di linguaggio e di pensiero che segna la fine di un territorio e l’inizio di un altro. Lo ha raccontato spesso: a volte si parla perfino di pochi chilometri, e l’Abruzzo cambia. La sua opera più celebre, L’Arminuta, prende il nome da un dialettalismo. E l’Abruzzo è sempre sullo sfondo delle vicende che racconta. Ma non è convinta quando Melozzi pungola dicendo che «serve un abruzzese semplificato», provocazione che nel frattempo non smette di far discutere, coinvolgendo nomi come Setak, Luciano D’Alfonso e il comico ’Nduccio.

Di Pietrantonio, cosa non la convince?

«Mi sembra un’operazione falsa e perfino inutile».

Perché falsa?

«L’Abruzzo ha tante varietà linguistiche. Cercarne una che sia una specie di media di tutte queste mi pare velleitario».

Invece per Melozzi l’obiettivo è chiaro: una lingua semplificata e spendibile fuori dalla regione.

«Sono processi che partono dal basso, non si impongono in modo artificioso. Pensi a quello che sta succedendo nel territorio vestino…».

Cioè?

«Sono zone soggette a spopolamento, come si sa. Le persone dall’interno si spostano nell’unica grande città della zona, Pescara».

Quindi?

«Lì il dialetto di chi viene da fuori si conforma alla parlata del posto, si omologa. Così oggi un pennese parla in un modo che ricorda quasi il pescarese…».

Cioè non dite più “Ponn”?

«Qualcuno dice “Penn” (ride, ndr)».

Ma allora è possibile pensare a un dialetto comune?

«Non nei termini proposti finora».

E in quali termini?

«Se lei considera i fenomeni che portano una lingua ad emergere sulle altre, sono sempre sistemici. Nel caso piccolo di Pescara, quel dialetto si impone perché viene dalla città che è oggi il polo attrattivo per chi proviene da fuori».

Quindi lei non crede nella koinè abruzzese?

«No. Quello che può succedere è che una città si imponga naturalmente sulle altre per ragioni sociali ed economiche. Non si fa una lingua a tavolino».

Ma finora l’Abruzzo una città egemone non ce l’ha avuta.

«Né una tradizione letteraria importante».

Qualche autore c’è.

«Certo, ma è mancata una rete linguistica che imponesse le nostre parlate nel resto d’Italia».

Oggi costruire quella rete può fare la differenza?

«Non penso che lo sviluppo, anzi il progresso come dice Setak, di questa terra passi da lì».

Ma lei non sembra nemmeno interessata a provare.

«Non in quel modo, non con quella idea di “folklore” e di Abruzzo».

Allora il suo è un attacco all’operazione tutta.

«Spettacolo compreso, sì».

Cos’ha che non va?

«Non mi piace che si presenti “La Notte dei Serpenti” come il recupero delle nostre radici, del mondo contadino».

Perché? Del resto quello è anche il suo mondo.

«Proprio per questo lo considero una svendita al mercato della nostra storia autentica».

È un’accusa forte.

«Mi sento umiliata a vedere quel mondo raccontato così. La vita contadina non era né gioia né spensieratezza né canti sotto il cielo, in mezzo al grano. Era sacrificio, duro lavoro sin da bambini».

Va pur venduto a un grande pubblico…

«E perché? E in ogni caso vendere non vuol dire banalizzare».

In che modo viene banalizzato?

«Lì nei campi dove ho lavorato e sono cresciuta da ragazza c’erano solo rari momenti di canto, tanto per esorcizzare la fatica sotto il calore del sole».

Ma da lì nasce un’enormità di canzoni.

«Sì, abbiamo un ampio repertorio legato, per esempio, alla mietitura. Ma erano nella verità cinque minuti in una giornata intera di lavoro disperato».

Quindi la traduzione pop la offende.

«Sì, perché su certi temi si dovrebbe giocare entro dei limiti. O in modi diversi, insomma».

Per esempio?

«In Abruzzo operano tantissime associazioni, compagnie teatrali, cori che faticano a sopravvivere e che sono necessari per l’humus culturale del territorio. I piccoli fanno la fame, ma sono loro il volto della regione».

Ma “La Notte dei Serpenti” porta oltre 30mila spettatori davanti al palco.

«Anche perché lì vengono convogliati i soldi della Regione. Non mi si venga a dire che una spesa del genere non incide sul bilancio generale della cultura…».

È una vecchia critica.

«E del resto le critiche vanno pur fatte. Era interessante la lettera al Centro scritta da Lucio Cutella».

Che però se l’è vista con il pubblico accesissimo di Melozzi, che quella lettera l’ha condivisa sul suo profilo.

«Sono rimasta sconvolta dalla violenza di quegli attacchi».

Un vecchio classico dei social.

«Però Melozzi aveva la responsabilità di moderare i suoi follower e non l’ha fatto».

Ma quindi forse il punto è che non le piace Melozzi.

«Al contrario, trovo che sia un grande professionista».

Ma?

«Nessun “ma”. Lo ammiro come compositore, come musicista, come arrangiatore. Non mi è piaciuto come ha gestito la critica di Cutella».

Perché?

«Ha dato in pasto al suo pubblico un parere contrario al suo, al loro. Ne ha fatto un uso strumentale, lo trovo sbagliato. Le opinioni come quella di Cutella sono legittime, le critiche vanno accettate».

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