Flaiano, marziano pescarese che ragionava per paradossi
Si celebrano oggi i centodieci anni dalla nascita dello scrittore e sceneggiatore dalla corrosiva vena satirica nel racconto dell’uomo e delle sue contraddizioni
Ennio Flaiano è uno specchio ustorio. Estremamente limpido e impietoso nel rimandare una concentrazione al calor bianco dell’uomo e della società, e non neutrale in ciò. E’ infatti uno specchio orientato, mosso, magnetizzato – nel suo tendere a una messa a fuoco – dall’uomo e sulle sue contraddizioni; dal ridicolo della sua inconcludente esistenza, totalmente pervasa da incoscienza di ciò, fino alla conclusione comune a tutti, la morte, la quale sopraggiunge a interromperla, sempre accompagnata da non consapevolezza però, anche negli ultimi anni di “rimbambimento e offuscamento/ senza denti, senza vista, senza gusto, senza un accidente di niente”, per dirla con lo Shakespeare amato dal nostro.
Ultimo di sette figli, nato 110 anni fa, il 5 marzo del 1910, a due passi da casa D’Annunzio, in quella “spina di borgo” ai lati dell’odierno corso Manthonè, che era l’unica a portare il nome di Pescara (per non essere ancora avvenuta la fusione con Castellammare Adriatico dall’altra parte del fiume), Ennio Flaiano ha un percorso di formazione singhiozzante, autodidattico.
Dopo i primi anni di vita nei quali la numerosa e non abbiente famiglia cerca fortuna spesso fuori dell’Abruzzo, viene mandato in collegio in varie città, tra cui, a 12 anni, a Roma; gli anni di formazione più significativi – fine anni ’20 - sono quelli di radicamento del fascismo in Italia; a metà degli anni ‘30 partecipa alla guerra d’Etiopia (che gli ispirerà “Tempo di uccidere” – il primo romanzo a essere insignito nel 1947 del premio Strega); dopo instabili e abbandonati studi di architettura, già dagli anni della guerra comincia a essere conquistato dalla scrittura giornalistica, collaborando con le più importanti testate, tra cui il Mondo di Pannunzio, l’Europeo e altri giornali su cui tiene anche rubriche, firmandosi con vari pseudonimi.
Quelli a cavallo della guerra sono anni decisivi, per l’irrompere in lui di una vocazione e di una pratica letteraria e giornalistica, che presto si riversano nel mondo del cinema, in termini di scrittura di copioni. Flaiano diventa lo sceneggiatore più ricercato in Italia e ancor oggi, tra le varie connotazioni professionali per indicarlo, quella di “sceneggiatore” è prevalente.
Negli anni ’50 e ’60 collabora infatti con moltissimi registi, e tra questi il nome d’obbligo è Federico Fellini, al quale lo lega anche un’amicizia, travagliata però e poi interrotta “per ragioni frivole” – scriverà Flaiano, liquidando a metà anni ’60 con una fredda lettera l’osannato maestro riminese; i rapporti tra i due (non più le collaborazioni) riprenderanno formalmente col “perdono” da parte dell’ombroso pescarese negli ultimi due anni di vita. Gravemente cardiopatico, si spegnerà nel 1972. Verrà sepolto alle porte di Roma, a Maccarese, dove riposano anche la figlia e la moglie; su quella onirica costa laziale sabbiosa, non ancora alla moda e da poco sottratta alla malaria, cara a lui e al cantore del mare Fellini: a loro due, autori di tante indimenticabili scene di film lì ambientate, a partire da quella finale de “La dolce vita”. Ennio Flaiano è, al di là di queste connotazioni professionali, un talento così poliedrico da far apparire inadeguate singole definizioni.
Grande sceneggiatore, romanziere, critico, giornalista e aforista: un signore della parola, consapevole del suo talento e fecondo nell’esprimerlo. Il sostantivo più frequentemente associato a lui è “satira” e non può negarsi che una robusta, corrosiva vena satirica pervada la sua produzione, dando struttura e tono a sceneggiature e racconti.
Il più famoso è “Un marziano a Roma” con protagonista il marziano Kunt, parabola dell’osanna mediatico a ogni messia, e del suo successivo abbandono da parte di un mondo cinico, volubile, ingrato, incapace di redenzione; permeato dai prodromi delle odierne pandemie social, potrebbe aggiungersi. Ma non era solo un satirico, Flaiano.
Era piuttosto un moralista di matrice swiftiana, animoso e tenero, commosso e severo, divertito ma intransigente nella inesausta contrapposizione al suo mondo (il cinema, la Roma di via Veneto, la contemporaneità). Di questo contesto esorcizzava ciò che non accettava, crocifiggendolo con la parola; e rispetto a cui non intravvedeva orizzonti di recupero. Ecco perché si sente a volte parlare, per Flaiano, di amarezza, che egli tuttavia si rifiuta, come artista, di rendere superiore alla denuncia caustica. Congeniali a questa operazione sono i suoi gioielli, gli aforismi, che hanno permeato e continuano a permeare l’immaginario collettivo, accreditando l’icona di un Flaiano irraggiungibile creatore di massime e proverbi.
In realtà erano il distillato del suo guardare l’umanità attraverso la lente del paradosso, costantemente ricercato, magnificamente espresso. Pagine si sono scritte sul suo tributo a grandi aforisti del passato come Marziale e Catullo, Orazio e Giovenale; oppure ai grandi gnomici quali La Rouchefoucauld e Swift, Wilde e Kraus. Su questo versante mancano forse pagine da dedicare a nomi discussi, e a lui contemporanei, come Pitigrilli, Longanesi e Guareschi. Mentre si attende il primo studio comparativo, per questo marziano pescarese trapiantato a Roma, sul tanto amato nonsense; che ha la patria d’elezione nella letteratura anglosassone – con nomi come gli inglesi Lear e, in tempi più recenti, Jerome e Orwell.
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