Il professor Di Renzo sul “dialetto rivisitato” di Melozzi: «Usciamo dalla retorica del “forti e gentili”»

21 Settembre 2025

L’antropologo al Centro: «Il nostro è un crogiolo di culture. Torniamo a dire “Abruzzi” per raccontare la regione nella sua grande varietà»

PESCARA. Professore all’Università di Tor Vergata, Ernesto Di Renzo dà al dibattito sull’abruzzese semplificato proposto dal maestro Enrico Melozzi il punto di vista dell’antropologo. Il suo pensiero è chiaro, articolato. L’uso delle parole è chirurgico. La presa di posizione inedita, raccontata con piglio, aneddoti, esempi, colpi di scena.

Di Renzo, sgomberiamo il campo: l’abruzzese è un dialetto o una lingua?

«Il dialetto è una lingua. Creare un dialetto è come creare una lingua».

Come si fa?

«Non è facile. Ci vanno di mezzo cultura, arte, religione, ideologie, politica, contatti, scambi…».

Un bel groviglio.

«L’esperanto ci insegna molto in questo senso. Ma c’è un caso interessante».

Quale?

«Il Sabir, una lingua franca fatta di parole catalane, occitane, turche, veneziane, genovesi, arabe, provenzali. Era la metà dell’Ottocento…».

Un modello un po’ vecchio.

«Serviva ai naviganti, ai mercanti di tutti i porti per comunicare durante gli affari. Oggi è dimenticata, ma può dirci ancora qualcosa».

Cosa?

«Che fenomeni come questo nascono da esigenze che provengono dal basso, non c’è un’intenzionalità pianificata».

Quindi lei è d’accordo con chi dice - come Donatella Di Pietrantonio - che non si può fare una lingua a tavolino?

«Non sono nemmeno sicuro che dall’omologazione sia possibile trarre vantaggi reali».

Cioè?

«Il successo turistico della Puglia, per esempio, non mi sembra che sia legato all’adozione di un salentino semplificato o di un foggiano ridotto, o di un barese esteso».

Va bene, quindi anche lei è contro la proposta di Melozzi.

«No. Ha fatto bene a lanciare questa provocazione che ha messo sul piatto della discussione un problema di grande importanza».

Quale?

«Come porre l’Abruzzo sul piano della conoscenza, della visibilità e della competizione turistica, oltre l’elogio dell’arrosticino e la retorica del forte e gentile».

E lei ha capito come si fa?

«Non si può fare rinunciando alla propria autenticità, originalità, tipicità, esclusività».

Allora ha capito come non si fa.

«Guardi, dobbiamo puntare sulla ricerca delle emozioni, la memorabilità del viaggio, l’immersività e l’unicità dell’esperienza. Tutte cose, cioè, che possono essere remunerative in termini di piacevolezza del vissuto e, soprattutto, di like».

Ci faccia capire: le ricette abruzzesi le dobbiamo semplificare o no?

«No. Altrimenti che cosa distinguerebbe l’Abruzzo dall’Umbria, o il teramano dal marsicano? Tanto varrebbe andare in un unico posto con l’aspettativa di averli visti tutti».

Lorenzo Dattoli, presidente di Confindustria Abruzzo, dice che quello è un volàno per avere più appeal.

«In realtà, se andiamo a vedere e comparare i casi turistici di successo a livello nazionale scopriamo che sono stati costruiti proprio su una definizione netta, evidente, riconoscibile delle loro unicità e delle loro unicità rispetto alle altre. Pensi alle Langhe, al Salento».

E qual è il carattere tipico che ci distingue?

«Quello per cui l’Abruzzo stesso era fantasticato come il luogo dell’Hic sunt leones o dell’Hic sunt dracones».

Ci spieghi meglio.

«Una terra altra, discosta, inesplorata, dominata dal selvaggio, dalla barbarie e dal pericolo incombente: umano e naturale».

Ma non è una visione un po’ risaputa?

«Allora le faccio un’altra proposta».

Dica.

«Riprendiamo quella dizione oggi superata con cui la regione veniva designata nelle carte geografiche del passato: gli Abruzzi».

E perché?

«Perché rendeva davvero bene l’idea delle differenze che intercorrevano tra i suoi territori e che, nel complesso, gli conferivano una dimensione fortemente a mosaico».

Differenze che percepiamo anche oggi.

«Certo. Nei paesaggi, negli habitat, nei climi, negli stilemi architettonici, nei modelli gastronomici, nelle tradizioni festive, nei dialetti e perfino nell’onomastica. Vuole che vada avanti?».

È chiaro.

«Ma in ogni caso le parlerei dell’Abruzzo come di una salad bowl di culture, di un patchwork di ambienti e di una tavolozza di dialetti dalle impronunciabili dizioni».

Ci fa un esempio?

«Quella pescasserolese “prss” per significare professore; quella avezzanese “l’si o” per intendere “lo stai sentendo”; quella leccese “ottammè” per dire “guarda un po’”...».

Perché è così importante la questione linguistica?

«Come ha detto il mio amico linguista Francesco Sabatini, i nostri pensieri sono in funzione delle parole che conosciamo. Cambiare le parole significa cambiare i nostri sistemi di pensiero, ma anche le nostre sensazioni interiori».

Quindi non possiamo separare dialetto e identità?

«Le racconto una cosa. Nel 2011 McDonald’s, dovendo promuovere un nuovo hamburger sul mercato nazionale e volendo declinarlo all’insegna della ruralità, lo ha chiamato Ciociaro, che nell’immaginario collettivo italiano è ovunque sinonimo di rusticità contadina».

E quindi?

«Per il lancio televisivo la multinazionale ha proposto una pubblicità nella quale giovani attori ciociari si esprimevano in un dialetto molto vicino al maceratese, immaginando forse, da americani, che un dialetto vale l’altro».

Com’è finita?

«L’ondata di indignazione che si è elevata nella Ciociaria è stata talmente accesa, rabbiosa e veemente che i poveri addetti al marketing hanno dovuto ritirare dal mercato sia il prodotto che il nome con il quale lo avevano designato. Fatto salvo, dopo qualche mese e dopo qualche riaggiustamento filologico, ripresentarlo al consumo con il nome di “Nuovo Ciociaro».

E l’abruzzese della Notte dei Serpenti com’è?

«Funziona perché asseconda gli interessi tutti postmoderni e contemporanei verso le identità in musica o le identità nel piatto e nel bicchiere. Non è l’unico caso. Pensi alla Notte della Taranta, a Collisioni, a Vinoforum, al Cous cous fest».

Quindi un festival dell’Abruzzo o degli Abruzzi?

«Abruzzi! E che siano raccontati nella complessità delle personalità che questa regione intimamente possiede. Ma senza per questo soffrire di un complesso da personalità multipla, naturalmente».

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