L’intervista a Giovanni Floris: la televisione, i cinepanettoni e l’Abruzzo nel cuore

20 Dicembre 2025

Il conduttore di La7: «Ho insegnato all’università di Teramo. Oggi in tv gli opinionisti creano più interesse dei politici»

ROMA. Siamo a Roma. Con il direttore Luca Telese incontro Giovanni Floris, conduttore televisivo tra i più apprezzati nel panorama italiano, negli Studios di via Tiburtina. È giorno di festa, ma la redazione pullula di giornalisti, autori, tecnici. Floris ci accoglie nel suo ufficio al secondo piano di una palazzina degli storici studios capitolini. È in procinto di iniziare la riunione per la puntata di domani, ma ci dedica il tempo necessario per una chiacchierata a 360 gradi. L’ufficio è caldo e accogliente: su una parete una miriade di foto che raccontano la sua storia, in fondo un appendiabiti con camicie e giacche “da televisione”. Sullo sfondo un bandierone della Roma. Il tempo di preparare un caffè nella macchinetta espresso all’angolo e si comincia.

Giovanni Floris, partiamo dal tuo libro “Asini che volano”.

«Lo stanno leggendo in tanti. È un libro che mi ha tanto divertito fare, che mi è piaciuto molto. Diciamo che è stato molto bello scriverlo».

Perché?

«Perché in qualche modo per noi è anche generazionale, perché parlo del nostro mondo, del modo in cui abbiamo fatto le cose. Ma penso che sia un libro che può prendere anche dei lettori delle ultime generazioni, non soltanto i nostri coetanei ».

Il libro parla di uno spaccato della nostra società, a confronto con il mondo dei cinepanettoni. Tu come ci sei entrato in questo mondo?

«Perché le persone della mia età hanno vissuto in pieno quel filone. Era il primo “Vacanze di Natale” dell'83. Poi li ho visti tutti, ma anche tre in un giorno».

Quale in particolare?

«“Vacanze sul Nilo”, con mia moglie. Tre volte in due giorni».

Immagino come tu abbia dovuto combattere per anni contro gli intellettuali che dicevano: “È spazzatura, vai a vedere l'ultimo film di Angelopoulos”.

«Ma io ho visto pure Angelopoulos».

Il cinema è bello perché è vario, giusto?

«Io sono un amante del cinema in generale. Quando mi viene da ridere, mi piace ridere. Mio padre mi ha insegnato a ridere al cinema, del cinema, con il cinema».

Cosa faceva tuo padre?

«Mio padre (Bachisio Floris ndr) lavorava in banca, però scriveva anche per il cabaret. Lui scriveva i testi per Gastone Pescucci e per i Brutos. Te li ricordi i Brutos?».

Certo, era un gruppo musicale e comico italiano degli anni Settanta.

«Venivano a provare a casa nostra quando eravamo bambini. Quindi mi ricordo le notti in salone con i Brutos».

Immagino voi nel salone.

«Io, mia madre e mia sorella eravamo il test per vedere se facevano ridere. Era una cosa stupenda. Se pensate che mio padre era un bancario e che di notte lavorava con il suo amico Francesco Barbone a dei testi comici, capite che è stato un momento formativo unico».

Come ha cominciato tuo padre? Qual è stato il click che lo ha spinto?

«Penso che fosse solo perché era spiritoso, molto spiritoso. Immagino se ne accorse qualcuno che gli chiese di scrivere».

Era sardo?

«Nuorese, sì. E aveva questa dimensione artistica che accompagnava una vita di fatica, di lavoro in banca, di lavoro quotidiano, di uscire ogni giorno alle sette da casa. E quindi abbiamo sempre amato la commedia. Poi ci eravamo comprati il Super 8 a casa, quello per trasmettere i film, e vedevamo i film di Totò».

Il cinema da sempre attraversa la tua vita.

«Sì, tutta la commedia all'italiana, tutto Monicelli, tutto Risi. E poi l'epoca nostra che è stata segnata dai Vanzina, da Neri Parenti, da Fantozzi, da Tomas Milian».

Per arrivare ai giorni nostri.

«Oggi amiamo ridere con Checco Zalone, con la Gialappa’s, con Crozza e con Luca e Paolo. Con Boris. Con Lundini e Fanelli… e tanti altri. Mia moglie la pensa come me, come detto ci siamo visti ‘Natale sul Nilo’ a ripetizione. Non è una novità. Anzi, due volte il 25 dicembre, poi il giorno del mio compleanno, il 27, quando siamo ritornati al cinema con gli stessi amici».

Come ti è venuto in mente di scrivere questo libro proprio collegando il cinepanettone alla realtà politica di oggi?

«Perché più che il cinepanettone, secondo me, è proprio la commedia il punto: come noi ci descriviamo, come noi ridiamo di noi stessi. È quello che racconta come siamo. All’epoca della commedia all’italiana e anche con il cinepanettone ridevamo dei nostri difetti, lo facevamo anche con ‘Vacanze di Natale’, ma piano piano abbiamo iniziato a pensare che i difetti fossero virtù. Invece di ridere delle nostre debolezze, abbiamo iniziato ad apprezzarle, poi a votarle, fino a farcene governare».

Detto del libro e dei Brutos nel salotto, Floris parla dell’Abruzzo.

«Amo Pescasseroli, lì ho vissuto e continuo a vivere un pezzo della mia vita. Non è un caso se personaggi del calibro di Dacia Maraini, Riccardo Milani e Paola Cortellesi hanno deciso di vivere lì per gran parte dell’anno. E poi c’è Palazzo Sipari, la casa Museo (qui inarca le sopracciglia per ricordare) di Benedetto Croce».

Uno dei personaggi più influenti della storia d’Abruzzo, e non solo.

«La Fondazione è guidata da Simona Orsello, sorella di Daniela, collega e amica che stava a Perugia con noi».

Cos’altro ti lega a Pescasseroli?

«Da quando c'è Peppe delegato alla cultura, a Pescasseroli è ancora più facile (Peppe Vitale è un animatore culturale di spessore che collabora anche con la rassegna estiva “Pescasseroli legge”, curata da Dacia Maraini, e gestisce il locale cinema “Ettore Scola” ndr)».

Pescasseroli è bella in ogni stagione. È un po’ la caratteristica dei centri montani abruzzesi.

«E infatti mia madre (Pergentina Pedaccini, ndr) quest’estate ha goduto di questa splendida rassegna perché le piacciono le attività culturali».

Quindi va apposta per la rassegna?

«No, è andata perché le piace il posto. Quest'anno ha iniziato a seguire la rassegna, ma penso che ci tornerà perché si è trovata benissimo. Insomma, ha scelto Pescasseroli perché l'estate è fresca, ma ora c'è anche la rassegna culturale che le interessa».

L’occasione giusta anche per il Floris scrittore, giusto?

«Io vado il prossimo anno a presentare “Asini che volano“».

Dacia Maraini è un motore inesauribile di proposte culturali. L’abbiamo intervistata sul Centro e, siccome era in Georgia a presentare un suo libro, ci ha chiesto di tenere da parte una copia del giornale, che poi le abbiamo spedito.

«Lei è straordinaria».

Senti, due cose che ti piacciono dell’Abruzzo gastronomico?

«Io sono da pasta più che da secondi piatti. Straordinaria la cacio, pepe e tartufo a Pescocostanzo. E poi ricordo una pizzeria pazzesca a Sulmona. E tanti altri ristoranti di qualità a Pescasseroli».

Lo sci, le rassegne letterarie, la gastronomia. L’Abruzzo nel cuore?

«Ho pure insegnato all’Università di Teramo».

Scienze della Comunicazione?

«Sì, Scienze della Comunicazione. Ho fatto due o tre anni di docenza».

Insomma, sei proprio un abruzzese adottivo.

«Però poi ho dovuto lasciare l’insegnamento perché non ce la facevo a seguire la cosa con l’impegno che meritava. Insegnavo “Preparazione e gestione del talk televisivo”, avevo 41 anni, capirai. Era nell'ambito del corso di comunicazione televisiva del master di giornalismo».

Ti piace anche sciare, vero?

«Abbiamo sciato tanto a Pescasseroli. All’epoca facevo Ballarò. Tu considera che durante quella trasmissione sono nati i miei figli. Appena è stato possibile li abbiamo subito messi sugli sci. Erano molto piccoli e facevamo le settimane bianche. Dopo la diretta di Ballarò, che all’epoca finiva alle 23.30, il martedì partivo di notte, per raggiungere loro che andavano su la domenica. Arrivavo la notte tra martedì e mercoledì, percorrendo da solo tutto il tragitto. Stupendo, mi regalava tranquillità. Poi la notte, quest’avventura in mezzo alla neve era fantastica. Il tempo di arrivare, dormire e il mattino dopo stavo già sciando, era proprio una goduria».

Alla scoperta dell’Abruzzo più autentico, quasi selvaggio.

«In uno di questi viaggi sono convinto di aver visto una lince, di notte, con queste due orecchie nel buio… Poi trovavo i cervi, i cavalli che leccavano la strada cosparsa di sale. Arrivavo a Pescasseroli e dal mercoledì mattina sciavo fino alla domenica».

Sembra quasi di vedere la scena del film “Un mondo a parte” di Riccardo Milani in cui un incauto Antonio Albanese, che interpreta un professore romano trasferito in Abruzzo, resta intrappolato in mezzo alla tormenta di neve e viene salvato dalla preside Virginia Raffaele. Quel film ti è piaciuto?

«Molto, i film di Milani mi piacciono tutti, anche l'ultimo ambientato in Sardegna, perché recupera il territorio, è una cosa bellissima. Non offende il sentiment di quella gente».

Il rischio è che possa trasformare in caricaturale un territorio intero?

«No, non l’ho trovato caricaturale, i film di Milani sembrano sempre molto rispettosi».

Torniamo per un attimo al libro. Dicevi che hai fatto molte presentazioni. Con quale tipo di pubblico? Diverso rispetto a quello solito?

«Eh guarda, è un pubblico più ampio. In genere io faccio o saggi o romanzi che però hanno un ancoraggio molto profondo a temi culturali, sociali. Invece, questa volta mi sembra un po' più largo come utenza, anche se in fondo è sempre un modo di parlare dell'Italia, dei problemi del Paese. Credo che ci sia un interesse un po' più vasto. In fondo, ecco, anche il fatto che sia molto letto probabilmente è perché tocca temi che interessano anche a più persone».

Hai sbobinato tutta quella miriade di battute fulminanti dei cinepanettoni?

«Macché, le so a memoria. Sono giusto andato a riguardarmele per non sbagliare qualcosa. Sono 128 film, mi pare, o 127».

Avrai fatto un enorme lavoro di preparazione per ricordare tutto?

«Guarda, in realtà è stato molto semplice e molto piacevole. La memoria mi ha assistito (sorride compiaciuto)».

Addirittura.

«Non solo per i cinepanettoni. Mi dispiace, anzi, di aver lasciato fuori molte citazioni. Eventualmente faremo un altro libro. Pensa alla Grande guerra…».

Il finale è folgorante.

«Che bello. Alberto Sordi che muore da vigliacco eroe. Un ossimoro pazzesco».

Passiamo a parlare di televisione. Cosa senti dei tempi che stiamo vivendo? È cambiato molto anche Dimartedì negli ultimi due anni?

«Sopravvivono solo le trasmissioni che cambiano, perché in tempi così volatili devi riuscire ad adattarti ai codici e linguaggi che si impongono».

Ma cosa hai capito di questi nuovi linguaggi?

«La grande differenza è tra Ballarò e Di Martedì, a dir la verità. Cioè, Ballarò era di una semplicità estrema. Tre da una parte, tre dall'altra. La divisione non era solo politica, era quasi antropologica. Erano proprio delle culture che si confrontavano: berlusconiani e anti berlusconiani. Sei ospiti e tanti argomenti. Adesso noi abbiamo tanti ospiti e un solo argomento».

Quale fu il momento più rimasto impresso nella mente? Il famoso “Si fotta” di D’Alema?

«Ah! Ricordo… D'Alema e Sallusti».

Perché sbottò D’Alema?

«Era una polemica sulla casa di D'Alema. Era un’epoca di politica binaria: destra e sinistra».

E Berlusconi telefonava?

«Sì. Ma ricordo soprattutto quando Berlusconi si presentò a sorpresa al posto di La Loggia in una puntata con D'Alema, Rutelli e Alemanno».

Voleva sorprendere?

«Venne 5 minuti prima dell'inizio della trasmissione».

Immagino la vostra sorpresa…

«Fu tale che Gene Gnocchi iniziò la copertina, che era piena di battute su Berlusconi, e se riguardate l’immagine in cui vede in studio Berlusconi, ti accorgi che Gene Gnocchi rimane zitto per qualche frazione di secondo. Con un’espressione del tipo “Cosa ci fa qui questo?”. Era un'altra epoca».

Ascolto pazzesco?

«E chi se lo ricorda? Sì, sicuramente sì».

La puntata con l’ascolto più alto?

«Forse quella. Però non te lo so dire. Forse fece di più la caduta di Berlusconi con i festeggiamenti davanti al Quirinale».

Sì, quando uscì dal Quirinale e c'era la folla che lo insultava. Invece oggi, che talk politico preferisce il telespettatore?

«Adesso è completamente diverso. Non puoi mettere tre da una parte e tre dall'altra, perché il quadro politico è molto più composito».

Qualche esempio?

«Se fai una puntata sulla guerra, magari ci sta Salvini da una parte e Meloni dall'altra. E lo stesso vale per il centrosinistra. I temi spaccano le aree politiche, neanche a dire le coalizioni. I politici poi sono molto meno seguiti, quindi ci sono più commentatori, più pensatori, più filosofi, più editorialisti».

Che significa?

«Che la gente cerca più il pensiero laterale che quello ufficiale delle coalizioni. Sì, cerca più le analisi, infatti sono quasi tutte interviste ormai. E più le analisi che il confronto. Però sono tutte cose che tra due mesi magari cambiano radicalmente».

La famosa battuta a Salvini: “Perché bisogna vaccinarsi? Non posso parlare con una signora senza mascherina?”. “No, non può”.

«Esatto, un esempio perfetto di come sia cambiata la politica oggi».

Quindi esattamente la gente cosa si aspetta?

«Cerca più il taglio critico. Gli serve più il dubbio che la verità».

Vale solo per le forze di governo?

«Beh, penso che neanche la posizione ufficiale dell'opposizione abbia lo stesso valore di un dubbio posto da un giornalista in questo momento».

I giornalisti sono l’alter ego dei politici?

«No, no, hanno tutt’altro ruolo, infatti sono alternativi».

In sostanza il giornalista di area ti dice le cose che i politici non possono dire fino in fondo. Non credi?

«Ma poi quello di area spesso critica la propria area. La base del talk show, dal mio punto di vista, è l'imprevedibilità. Se una trasmissione è prevedibile, la gente la segue con difficoltà. Il dubbio, il parere, la critica sono sempre meno prevedibili della posizione politica».

Interviene Luca Telese.

Tu sei molto ufficiale sabaudo, no?

«Che vuol dire?».

Nel senso che sei rigoroso. L’ho constatato quando io sono venuto ospite. C’è proprio un gran ritmo.

«Beh, il ritmo è molto importante. Anche l’impegno, e il rigore».

Molti altri talk show sono più anarchici, tu dai un ritmo da metronomo.

Torno a chiedere a Floris.

Insomma, vuoi che il tuo talk sia efficace, veloce.

«È molto importante, vedo che c'è un'attenzione che sfuma dopo un 20-25 minuti sui temi e sugli argomenti e persino sugli ospiti. Quindi noi abbiamo la necessità di mantenere alta l’attenzione».

Anche questo è un segno del cambiamento.

«Certo, noi a Ballarò facevamo due ore con un unico tema, ora è impensabile. Si partiva da esteri, poi politica interna, quindi economia. Adesso invece abbiamo lo stesso tema con tanti ospiti. ma il cambiamento è continuo a Dimartedì, noi abbiamo fatto talk con 17 persone. Adesso non più. Oggi c'è maggiore attenzione per i pochi ospiti, uno o due. E sono passati sì e no due mesi».

A parte la Meloni, chi altro ha rifiutato un invito?

«Invitiamo ogni settimana molti ministri del centrodestra».

E chi viene?

«Sono venuti Nordio, Tajani. In realtà, tutti hanno inviti aperti. Se però non vogliono venire è una posizione legittima. Non possiamo mandare i carabinieri a prenderli».

Ha fatto bene la Schlein a disertare Atreju?

«Secondo me, ogni occasione di confronto va sempre utilizzata. Poi dovevano trovare il modo, ecco».

È caduta nel trappolone?

«No, non credo. Ma secondo me potevano andare anche in due».

Sì? Io sono convinto che uno contro due per una come Meloni è un format da urlo.

«Ma dipende… perché poi se le parli di tasse che salgono, di pensioni che si allontanano, di sicurezza che non c’è… Se sei in due o sei uno, sempre le tasse salgono, quindi i contenuti alla fine vincono sempre».

Un paio di libri, a parte il tuo, da consigliare per chi fa una vacanza sulla neve?

«Uno di Luca Telese (sorride). Io sono sempre a favore dei classici, no? Durante le vacanze consiglio Milan Kundera, mi sembra regali un bel modo di pensare, di relazionarsi alla realtà. Forse “Lo scherzo”. Kundera è stato il mio autore preferito da ragazzo, è l'autore con cui mi immedesimo quando ragiono».

L'imminente acquisto di Repubblica da parte del gruppo greco Antenna di Theo Kyriakou o anche, ultima notizia, dal gruppo Del Vecchio, potrebbe in qualche modo essere un vantaggio o uno svantaggio per il giornalismo italiano? Come lo interpreti?

«Dipende sempre dai direttori e dai giornalisti, quale che sia la proprietà. Dipende dal direttore quanto mantiene la barra dritta e quanto si realizza il suo disegno editoriale. Dalla persona scelta capiremo molte cose».

Secondo te sarà una corsa a due Conte-Schlein nel centrosinistra o ci sarà un terzo incomodo?

«Guarda, è un po' buffo perché quello che pensavo è che durante la prima Repubblica si darebbe la guida a Conte, no? Il secondo partito, cui poi si affiancano tanti ministri del Pd. Nella seconda Repubblica si troverebbe un terzo nome, come si fece con Prodi. Nella Terza Repubblica si farà probabilmente come dice la Schlein: credo, o le primarie o il partito più forte esprimerà il premier».

C'è la Meloni che induce il bipolarismo?

«Il bipolarismo è nelle cose ormai, secondo me. La Meloni lo interpreta bene. Il centrodestra durante le elezioni diceva: “Noi decidiamo dopo”, ma si sapeva che sarebbe stata lei».

E il centrosinistra che schema dovrebbe adottare?

«Io invertirei lo schema nel centrosinistra. Loro dicono prima il programma e poi il leader. Invece secondo me converrebbe loro trovare prima il leader e affidare a lui o a lei la mediazione sui punti di intesa sul programma».

E non potrebbe esserci l'effetto, che ne so, Salis all'ultimo momento?

«Potrebbe esserci, potrebbe esserci tutto».

L’hai avuta in trasmissione, che impressione hai avuto?

«È molto in gamba, veramente molto in gamba. Come sono in gamba anche Schlein e Conte. Diciamo che lei interpreta bene il progressismo di questi anni».

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