’Nduccio: «Il dialetto serve per resistere, non deve mica stupire»

20 Settembre 2025

Parla il cabarettista, da mezzo secolo nelle piazze: «L’Abruzzo non è uno solo. Le parole cambiano da zona a zona, siamo 15 popoli con 15 lingue diverse»

PESCARA. In Abruzzo si arriva a discutere anche sul dialetto. O almeno su come usarlo in musica o in occasione di spettacoli. Dopo la “Notte dei Serpenti”, diretta dal maestro Enrico Melozzi e di recente trasmessa su Raidue, e le riflessioni di Nicola Pomponi, in arte Setak, sugli echi della stessa, il dibattito è uscito dai palchi.

A mettere ordine – o forse a sparigliare le carte (punti di vista) – arriva Germano D’Aurelio, in arte ’Nduccio, popolare cabarettista: cinquant’anni di carriera alle spalle tra battute, canzoni e palchi portati in giro da Palermo a Bolzano, senza mai una pausa. Nel tempo del “tutto e subito”, la sua voce riporta a una dimensione forse più lenta e concreta. La musica popolare come archivio di memorie, battute, proverbi e canti che ancora dicono tanto.

«Non confondiamo il folklore con la musica popolare» tiene subito a puntualizzare. E il riferimento non è casuale.

Nel suo racconto scorrono ricordi e appunti storici: dalle “settembrate fasciste” alla Settimana Abruzzese del 1923, quando tra Castellammare Adriatico e Pescara sfilarono costumi, cori e retorica. Era il tempo in cui il regime piegava il canto e le tradizioni al bisogno di propaganda, riducendo l’anima di un popolo a una cornice espositiva.

«Manifestazioni costruite da intellettuali, preti, avvocati, medici, non da contadini. La musica popolare è un’altra cosa: nasce dalla rabbia, dalla fatica, dalle voci minute delle campagne», sottolinea ’Nduccio. Il contrasto tra spettacolo e radice, tra milioni di spettatori e il lavoro lento nei paesi, diventa il filo della sua riflessione. «Continuo la mia opera dagli studi di Rete 8 e nelle piazze», spiega, «senza Rai o finanziamenti milionari. Lì l’emozione è più forte, più autentica».

Lei distingue spesso tra folklore e musica popolare. Può spiegare meglio?

«Il folklore è un’invenzione ottocentesca degli inglesi: folk significa popolo, lore linguaggio. Ma non ha molto a che fare con la musica popolare vera. Se pensiamo a Vola vola vola, alle maggiolate, alle settembrate fasciste fino alla Settimana Abruzzese del 1923, erano operazioni costruite a tavolino. Non raccontavano la vita di chi lavorava la terra. La vera musica popolare nasce dalla rabbia e dal dolore, come l’incanata, che in dialetto vuol dire inca...ata come un cane».

Setak e Melozzi vengono citati in questo dibattito. Che idea si è fatto?

«Con tutto il rispetto, Setak è un amico e un cantautore vero: scrive bene, lavora in maniera intima, minimale. Ma non fa musica popolare. Melozzi fa il suo mestiere, ha avuto vento a favore, ma in 52 anni di palchi io non l’ho mai visto sulle mie strade».

Si spieghi meglio.

«Il popolare non si misura con i numeri. Non è il milione di ascoltatori in una sera. Recupero più di 2.800 proverbi abruzzesi, ho ripreso il tele-vocabolario su Rete 8. La cultura popolare si costruisce pianissimo, nelle piazze, tra la gente. Le conquiste vere non si fanno con la Rai o coi finanziamenti, ma col lavoro lento».

Lei insiste molto sulle tante forme di dialetto.

«L’Abruzzo non è uno solo: siamo quindici popoli con quindici lingue diverse. Tra Pescara Porta Nuova e Pescara Centrale già cambiano le parole. Il dialetto si evolve, non resta pietrificato. Oggi tanti lo storpiano, infilano le kappa, ma almeno lo usano. Da lì possiamo ripartire».

In fondo, la sua carriera dimostra che il dialetto funziona ovunque.

«Non è stato certo Melozzi a farmi conoscere in un’apparizione televisiva, ma il lavoro costante per decenni. Arbore mi chiama ancora per le ultime battute in abruzzese, e da Palermo a Bolzano mi hanno sempre capito. Continuo la mia opera dagli studi di Rete 8 e nei teatri, senza Rai o milioni di euro. Lì l’emozione è più forte, più autentica».

Allora qual è, per lei, la differenza tra spettacolo e cultura popolare?

«Lo spettacolo con i soldi, i cori, le scenografie è mestiere di mercante, non d’arte. La cultura popolare è fatta di linguaggi poveri, umili, delle contrade e delle campagne. Non serve a stupire, ma a resistere. Il tempo è giudice di tutto: le mode passano, gli eventi televisivi si spengono in una sera, ma le parole dette in piazza, i proverbi, le battute, restano. È lì che si misura la vera forza di una tradizione».

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