Setak risponde a Melozzi: «L’abruzzese “inventato”? Mi interessa la forza emozionale, non l’aspetto folkloristico»

16 Settembre 2025

Il cantautore targa Tenco (miglior album in dialetto) commenta le parole del maestro: «Meglio cento piccoli festival che il grande evento di un giorno»

PENNE. Corrado Guzzanti l’aveva detto a modo suo: i costumi regionali, con tutto il folklore a corredo, rischiano di sembrare “buffi e stupidi” travestimenti più che identità. Oggi il paradosso è servito: da una parte c’è Enrico Melozzi, patron della Notte dei Serpenti, che in un’intervista al Centro suggerisce un Abruzzo da cartolina, con il saltarello a far da marchio di fabbrica; dall’altra chi – come Setak – rifiuta di addomesticare la lingua locale e preferisce cantare brani propri. Per lui la vera sfida non è fare audience, ma costruire una memoria musicale che resti, senza svenderla al primo applauso televisivo. È l’Abruzzo che sceglie di non piegarsi alla logica del grande evento e della “televisività” a tutti i costi. È l’Abruzzo raccontato da Setak, artista che ha fatto del dialetto e della scrittura originale il centro della sua ricerca musicale. Un percorso lontano dalle semplificazioni e dalle scorciatoie commerciali, che mette al centro creatività, rispetto delle radici e capacità di reinventarle nel presente.

Enrico Melozzi, parlando al Centro, ha detto che il folklore dovrebbe diventare più “televisivo” per arrivare a tutti. Lei, invece, porta avanti un percorso che non sembra cercare semplificazioni. Qual è, per lei, il vero rischio di questa logica dello spettacolo?

«Per risponderle prendo in prestito le parole di Pasolini che metteva in contrapposizione lo sviluppo con il progresso: sono d’accordissimo con lui quando dice che sono due cose completamente diverse che spesso – oggi che viviamo nell’epoca delle semplificazioni – vengono confuse. Ecco, il discorso televisivo ha più a che fare con lo sviluppo e non credo che sia automaticamente sinonimo di qualità, non credo sia il punto massimo della diffusione dell’espressione artistica, qualunque essa sia. A me interessa più il discorso del progresso, che sicuramente prevede un percorso più lento e tortuoso ma è certamente più incisivo e originale a livello socio-culturale. Per quanto riguarda me e il progetto Setak, le semplificazioni mi avrebbero potuto facilitare in un sacco di occasioni ma avrebbero allo stesso tempo depotenziato e banalizzato il messaggio. Preferisco avere i miei tempi, con un messaggio bello solido, che rimane. A un certo punto ognuno dovrebbe assumersi le proprie responsabilità, e qui mi rivolgo anche a voi giornalisti. Questa completa sparizione del senso critico, questa cieca promozione di qualsiasi cosa porti numeri e soldi sta diventando davvero insopportabile».

Melozzi parla di un dialetto “addomesticato”, quasi nello stile del siciliano di Franco e Ciccio, per renderlo più fruibile. Nelle sue canzoni, invece, emerge un dialetto usato in modo diretto, non addomesticato. Quanto conta questa scelta linguistica nella sua idea di autenticità artistica?

«Quando ho iniziato a lavorare al mio progetto in dialetto abruzzese, era veramente una scelta assurda, altro che operazione antieconomica, era totalmente da “fuori di testa”. Impensabile! Adesso pian piano i dialetti si stanno sdoganando e sentirli è molto più comune, ma vi assicuro che all’epoca avevi il timore che ti tirassero qualcosa dal pubblico. Quanto costa? Costa il fatto che devi avere la forza di saper aspettare, di lasciar sedimentare, di mettere l’ego da parte, di avere la forza di creare a “fondo perduto”. Tutto il contrario di ciò che succede nei “grandi eventi” e nel pop, un mondo che frequento e conosco bene, e che nella maggior parte dei casi si basa sulla teoria del “minimo sforzo e massimo risultato”. A me del dialetto interessa la forza sentimentale, non l’aspetto folkloristico. La mia sfida è stata trattarlo come una lingua viva, universale, capace di parlare a chiunque, senza confini territoriali. All’inizio non è stato semplice, ma questo mio modo di intendere il dialetto si sta facendo strada e sta arrivando alle persone. Oggi vedo che, pian piano, nonostante “alcune persone” facciano finta che il progetto Setak non esista (sorride, forse pensando al maestro teramano ndc), le cose stanno andando molto bene, ormai già da qualche anno. Ricevere tramite i social messaggi di ragazzi che hanno cominciato a scrivere nel nostro dialetto, ammetto che è molto emozionante».

A proposito della fruibilità dell’abruzzese, lei lavora su canzoni e linguaggi inediti, accostamenti italiano/dialetto piuttosto che su versioni rivisitate della tradizione?

«Ho sempre avuto una predisposizione al meticciato culturale e quindi musicale. L’obiettivo era quello di creare un linguaggio personale che non fosse relegato ai confini territoriali della mia regione. Inoltre ritengo che i termini “folk” e “popolare” a volte sono un po’ spaventosi, perché rischiano di rimandare a qualcosa di statico, chiuso nel passato. In realtà la tradizione è importante quando reinventa il presente, quando si apre alla possibilità di essere esportata e condivisa, quando contribuisce a creare un tessuto culturale che guarda al futuro. Non mi è mai interessata la tradizione come semplice operazione di conservazione, ma come qualcosa di vivo, che si trasforma».

In un’epoca in cui la musica sembra misurata solo in numeri, streaming e ascolti, che valore attribuisce invece al rapporto diretto con un pubblico più ristretto ma realmente coinvolto?

«Quando fai un progetto del genere automaticamente attiri persone che “scelgono” e che non subiscono la musica. Io ho la presunzione di dire che ho un bellissimo pubblico. Sono molto grato per questo. La musica popolare può vivere senza passare dal filtro del mercato e della televisione? Credo che tutto possa sopravvivere al mercato e alla televisione, purché non sia nato per quello. Per rimanere in ambito locale basta vedere quello che succede ogni anno ad Arsita per “Valfino al canto”, un festival tra i migliori per quanto riguarda la musica popolare, che si regge sulla passione e l’intraprendenza di una comunità. Un progetto merita di essere considerato quando brilla di luce propria, quando sopravvive a qualsiasi condizione. La televisione non può essere un obiettivo, deve rimanere sempre uno strumento. Se faccio musica con l’obiettivo di capitalizzare subito o di portarla in tv dopo un giorno, prenderà naturalmente la direzione dell’intrattenimento turistico. Ricordiamoci che nel pop e nel mainstream in Italia vince quasi sempre chi abbassa di più la soglia del pudore. Per forza di cose è difficile sfondare in termini di ascolti con un progetto “raffinato”. Per quelle cose ci vuole tempo e dedizione che è il contrario del tutto e subito. C’è un mio amico, un grande artista. Si chiama Davide Ambrogio che canta: Mercato dell’antico… olè / Memoria collettiva, guadagno individuale… olè. Questa mi sembra la risposta migliore».

Quindi si può, secondo lei, far crescere la cultura musicale senza ridurla a intrattenimento turistico, come qualcuno ha etichettato la Notte dei Serpenti?

«Credo fortemente che il progresso debba partire dal basso e non necessariamente dai grandi eventi. Piccoli festival, progetti che rimangono solidi nel tempo, che entrano nel sentimento collettivo. Per parlare di questo dobbiamo uscire da questa logica opprimente per cui espansione è sinonimo di successo. Se vogliamo entrare nel campo dei numeri, della cultura, della musica, del progresso, la domanda che faccio io è questa: valgono di più mille persone (che addirittura pagano) per cantare canzoni inedite, con un linguaggio inedito e una sintesi musicale inedita oppure ventimila persone che vengono ad ascoltare una versione turistica delle nostre tradizioni dietro una spesa pubblica importante? Meglio distribuire le economie organizzando cento piccoli festival lungo il territorio durante tutto l’anno di realtà e artisti davvero interessanti o investire in un evento come la Notte dei Serpenti, che dura un giorno, in cui migliaia di persone si radunano per sentire cantare in dialetto Topo Gigio o Elettra Lamborghini? Per carità sono carucci, fanno sorridere, ma possiamo considerarli una nuova memoria?»

Lei spesso rifiuta la logica della replica o della celebrazione a tutti i costi: è più importante, per lei, sorprendere con un linguaggio nuovo o restare fedeli a un canone tradizionale?

«La mia musica parla da sola, non ha niente di strettamente tradizionale. Ho voluto e cercato di fare una sintesi assolutamente personale, sapendo che quando tracci nuovi percorsi tutto è più complesso. Questa mancanza di etichettabilità (che è la qualità principale del mio progetto) mi ha creato non pochi problemi soprattutto con gli addetti ai lavori. Sarebbe stato più facile andare sull’usato garantito, sui campanilismi, sui ritmi imposti dalla musica popolare, sicuramente più immediati. Ho avuto diverse opportunità di poter divulgare in modo più immediato e vasto il mio progetto, ma sono sempre fuggito dalle etichette. Agli esordi mi sarei potuto impossessare della narrazione della nostra musica popolare, che spesso viene banalizzata con ritmi da sacrificio tribale, stregonerie ecc., ma non l’ho fatto anche per rispetto e pudore di chi se ne occupa in maniera più onesta di me. Non vorrei mai essere ricordato per il mio ego. Vorrei essere ricordato per la mia musica e per le mie canzoni».

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