CAMBIARE PER NON FALLIRE

L’Italia muore di riforme. Annunciate, dibattute, contestate. Finora mai realizzate. Comunque non percepite come tali. Capaci cioè di incidere sulla qualità della nostra sfibrata democrazia. E al tempo stesso sulla vita dei cittadini attraverso la certezza delle decisioni e la rapidità di intervento operativo in economia, nel sociale, sulla sicurezza. L’efficienza delle istituzioni è dunque il parametro per valutare una democrazia. È il nostro paradosso nazionale: da trent’anni le classi dirigenti si interrogano su come liberare il Paese da lacci e lacciuoli di burocrazie, corporazioni, apparati di partito e sindacali, caste di ogni colore e appartenenza, senza mai riuscirci. Una democrazia irresponsabile, potremmo definirla. Nella quale non sono mai chiari poteri, doveri, responsabilità. In tempi devastanti di crisi economica e sociale si rischia di non dar più valore alla più grande conquista dell’Occidente: la partecipazione democratica di ogni cittadino alla vita pubblica. Un potere inadeguato rispetto alla gravità dei problemi immanenti perde prestigio e autorevolezza; diventa non-valore.

La disoccupazione è salita al 13 per cento, un giovane su due è senza prospettive, il reddito delle famiglie è in calo. È tempo di disperazione che sfocia in rabbia. È tempo di populismi e di avventure politiche. Suscita grossolane ironie il carro armato artigianale, il “tanko”, sequestrato ai secessionisti veneti arrestati in una retata dai contorni pre-elettorali. Ma sarebbe un errore grave negare il malessere profondo che anima pezzi importanti del nostro territorio relegandolo a tema agitato solo da gruppuscoli estremisti. Guai a confondere una questione politica con un problema di ordine pubblico. Quasi un antistorico ritorno all’Ottocento con la forza pubblica schierata a difesa di una nazione matrigna. L’Italia soffre, purtroppo. Al Nord e al Sud. In tutti gli strati sociali c’è disagio, bisogno di cambiamento. Matteo Renzi è il distillato politico di questi umori profondi. Subìto come un accidente occasionale dalla sinistra più tradizionale e conservatrice, ammirato invece da una fetta consistente di elettorato deluso dal fallimento berlusconiano. Scrutato con curiosità persino da chi ha votato Movimento 5 Stelle. Così dicono i sondaggi, per quel che valgono. Il premier dunque sa che deve fare. E fare presto.

Non è detto che faccia bene. Probabilmente ne è consapevole. Ma gli interessa meno. Deve offrire agli italiani quelle riforme di cui si parla invano da decenni.

Cambiare per non fallire. Renzi per primo. Ma insieme a lui quel po’ che resta di un sistema parlamentare delegittimato. La sua è una turbo-democrazia: prima si annuncia, poi si acconcia. L’abolizione delle Province: fatta. Dubbi? Critiche? Poi si vede. La trasformazione del Senato: quasi fatta. Il carrozzone Cnel: soppresso. Più poteri al premier: ci arriveremo, forse. Ma nell’azione renziana di revisione della Costituzione manca la visione. I padri costituenti quasi 70 anni fa bilanciarono culture diverse - cattolica, marxista, laica e azionista - riuscendo a elaborare una Carta che ha garantito stabilità e benessere fino agli anni ’80 del secolo scorso. Cambiarla ora? I tempi sono maturi. Tra il rissoso immobilismo e il confuso populismo - del quale non è indenne lo stesso Renzi - la strada è stretta. Va percorsa fino in fondo. Con giudizio

@VicinanzaL