«Prevenzione, il sisma non ha insegnato nulla»

27 Gennaio 2013

Parla l’esperto Christian Del Pinto: servirebbero azioni coordinate e incisive come monitoraggio continuo, convegni ed esercitazioni per la popolazione

L'AQUILA. Monitoraggio, convegni ed esercitazioni.

Sono i tre livelli attraverso i quali si fa prevenzione in un Paese sismico da Nord a Sud. Come l’Italia. E come l’Abruzzo. Invece a tutt’oggi la lezione del sisma che ha distrutto L’Aquila il 6 aprile 2009 non è servita a molto. Quante esercitazioni si fanno nelle scuole, negli ospedali, negli uffici pubblici? Quanti convegni su «cosa fare e come farlo» vengono organizzati nel capoluogo distrutto da una scossa di magnitudo 6,3? E quanto valore si dà al livello accademico a un corso d’insegnamento in sismologia? Ci sono poi questioni che restano incomprensibili: come la permanenza dell’Aquila in zona sismica 2, dov’era stata collocata ben prima del sisma del 2009. E ancora: le polemiche infinite sorte intorno alla condanna a sei anni di reclusione ai 7 componenti della commissione Grandi Rischi, che si riunirono «in una commissione pantomima» per tranquillizzare la popolazione sul fatto che una scossa grande non ci sarebbe stata. «Pantomima» è la definizione che ha usato il sismologo, geofisico e vulcanologo Christian Del Pinto quando è stato ascoltato, in qualità di testimone, dal pm Fabio Picuti.

Del Pinto, scoppitano che lavora al centro operativo della Protezione civile della Regione Molise, partecipò come uditore alla riunione della Grandi Rischi che si tenne il 31 marzo 2009.

Cosa ricorda di quella riunione?

«Fu una grottesca pantomima. Su 40 persone presenti parlarono in 4 e vennero raggiunte conclusioni che non avevano alcun valore scientifico. La riunione è stata frettolosa, distratta dal “problema Giuliani” e quando si è affrontato il discorso di valutare un’eventuale evoluzione di quello che stava succedendo, si disse che c’era la bassissima possibilità – quasi prossima allo zero dissero – che uno sciame sismico registrasse un’impennata di magnitudo rispetto ai terremoti che componevano lo sciame fino a quel momento. Ma si sono dimenticati che già c’era stata l’impennata da 2,9 a 4,1. Ed era quello il motivo per cui venne riunita la commissione».

Dal 6 aprile 2009 a oggi cos’è cambiato all’Aquila? «Nulla. Qui c’è gente che dice che la prevenzione non serve, tanto il prossimo terremoto all’Aquila ci sarà tra 300 anni. In Abruzzo non si è mai fatto nulla dal 2002 per creare un osservatorio. L’Aquila era in zona sismica 2 ed è rimasta in zona 2. Ci sono Comuni, inoltre, che hanno un Piano di protezione civile che risale al 2008. Serve, poi, una rete di rilevamento sismico locale, che si vada ad aggiungere a quella nazionale dell’Ingv».

In cosa consiste la rete locale?

«È una rete di monitoraggio più stretta, in grado di fornire una maggiore risoluzione dell’attività sismo-genetica di un territorio. È come se per catturare i pesci piccoli usassimo una rete da pesca più stretta. Più stringi le “maglie” e più prendi terremoti piccoli. Per sapere quello che sta accadendo sotto i nostri piedi, non devi aspettare il terremoto di magnitudo 6. Ma valutare l’attività sismica più bassa, costantemente».

È così che funziona il progetto da lei ideato, “acquisito” dalla Regione Molise e mai preso in considerazione dagli amministratori abruzzesi?

«Esatto. Grazie alla rete locale realizzata in Molise in 21 mesi la “risoluzione sismica” rispetto alla rete nazionale è stata quadruplicata, passando da 400 a 1500 eventi registrati. Quella frequenza interessa a chi deve fare attività di prevenzione».

È sufficiente questo strumento per fare prevenzione? «Certo che no. Bisogna anche educare la popolazione al rischio. Attraverso seminari, convegni con gli scienziati, ingegneri, che dicano ai cittadini cosa fare concretamente, passo per passo, per affrontare una forte scossa e costruire in sicurezza. Come in Giappone, dove se fa un terremoto di magnitudo 7 non ci si preoccupa che cadano i palazzi. Ma di non far cadere oggetti dalle librerie. C’è, poi, il ruolo del primo cittadino. Il sindaco è il primo responsabile della protezione civile all’interno di un Comune e dovrebbe farsi carico dei rischi ai quali i suoi cittadini sono sottoposti. Educandoli, appunto, ad affrontarli».

Marianna Gianforte

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