l’intervista del 2008

«Quella mia esperienza nel processo Vajont»

Avvocato Marinucci, perché il processo del Vajont è finito all’Aquila? «In città, a dire il vero, c’erano già stati diversi processi importanti, anche di mafia. Si ritenne che la gravità dei fatti...

Avvocato Marinucci, perché il processo del Vajont è finito all’Aquila?

«In città, a dire il vero, c’erano già stati diversi processi importanti, anche di mafia. Si ritenne che la gravità dei fatti non permettesse di svolgere il procedimento nelle zone interessate dal disastro: giudici e difensori del luogo, infatti, avrebbero potuto subire pesanti pressioni».

L’Aquila, dunque, era ritenuta terreno neutro?

«Fu proprio in questa occasione che alcuni imputati si rivolsero a mio padre, Gustavo Marinucci, e, di conseguenza, a me. In particolare, lui difendeva l’ingegnere Biadene, mentre io Marin, direttore generale della Sade. L’idea di sfruttare come bacino idroelettrico la valle del fiume Vajont, infatti, venne concretizzata proprio dalla Società idroelettrica veneta poi assorbita dalla Sade (Società Adriatica di Elettricità) e i responsabili di quest’ultima furono accusati come colpevoli del disastro. Quando decidemmo di occuparci della causa, dovemmo reperire tutti i documenti necessari: il nostro studio era pieno di fascicoli, le carte erano ovunque».

Come avete proceduto?

«Nei giorni successivi, numerosi furono gli incontri a Venezia e all’Aquila con gli altri avvocati che si occupavano della causa e più di una volta siamo dovuti andare sul posto per toccare con mano la situazione».

Che ricordo ha della tragedia?

«La prima impressione che ho avuto, quando ho visto Longarone, è stata di un territorio distrutto dai bombardamenti: mi sembravano le rovine di una guerra. Rimaneva solo un’immensa distesa di fango, intervallata qua e là da qualche cima di albero o dai resti delle case. Così doveva essere Pompei, dopo l’eruzione del Vesuvio. Attaccate su un muro, ci avevano accolto, all’ingresso nel paese, decine e decine di fotografie di dispersi».

Gli incontri servirono soprattutto a stabilire una linea difensiva comune?

«La cosa che ci premeva più di tutto era dimostrare che gli imputati non avrebbero mai potuto immaginare, nei mesi precedenti al disastro, ciò che sarebbe effettivamente accaduto. Nel 1960, tre anni prima, c’era stata un’avvisaglia: una frana di dimensioni ridotte aveva invaso il bacino d’acqua sottostante. Inoltre, alcuni geologi avevano fatto presente che sulla montagna si estendeva per chilometri una profonda frattura. Nonostante ciò, era possibile immaginare altre frane, ma di quelle dimensioni, non come quella che ha provocato la tragedia».

C’è stata pressione su questo processo?

«Se per pressione si intende qualcosa dallo Stato, no. Tantissima pressione, invece, dall’opinione pubblica, l’informazione, sotto la giusta e legittima spinta dei familiari delle vittime, oltre i morti, che chiedevano giustizia. Ricordo ancora che autobus pieni di parenti delle vittime del disastro venivano all’Aquila, per gridarci contro il loro dolore».

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