Don Vito Cantò in tribunale

Abusi sessuali in chiesa, i testimoni non accusano don Vito

Il giudice stamane ha ascoltato quattro ragazzi che frequentavano la parrocchia di Villa Raspa di Spoltore. Prossima camera di consiglio il 12 aprile

PESCARA. Nessuno si sarebbe accorto di nulla. È quanto emerso dall'esame di quattro testimoni della difesa, questa mattina in tribunale a Pescara, nell'ambito del processo con rito abbreviato che vede imputato don Vito Cantò, l'ex parroco della chiesa di San Camillo De Lellis, a Villa Raspa di Spoltore (Pescara), accusato di abusi di natura sessuale nei confronti di un ragazzo all'epoca minorenne. In camera di consiglio sono stati ascoltati alcuni ragazzi che tra l'estate 2011 e quella 2012, arco temporale nel quale si sarebbero consumati gli abusi, frequentavano la parrocchia. I testimoni hanno detto di non aver notato nulla che lasciasse immaginare quanto in seguito denunciato. Nella prossima udienza, il 12 aprile, si terrà l'esame di un consulente tecnico della difesa, che sarà chiamato dai legali di don Cantò a fornire un parere sulle attività svolte in sede di incidente probatorio. Il 31 maggio, invece, si terrà la discussione.

La vicenda ebbe inizio nel 2013 quando, su segnalazioni ben circostanziate di abusi di natura sessuale nei confronti di un ragazzo all'epoca minorenne, il vescovo di Pescara Valentinetti decise di sospendere cautelativamente don Vito Cantò il quale lasciò la parrocchia e si dimise da educatore negli scout dell'Agesci. Nel 2014 iniziò il processo canonico e contestualmente i genitori del ragazzo decisero di rivolgersi anche alla magistratura ordinaria che affidò le indagini alla squadra mobile di Pescara. Il processo canonico si chiuse con una condanna di divieto perpetuo dello svolgimento di attività parrocchiali con minorenni e con altre pene accessorie, come l'obbligo di 5 anni di vita monacale. Nel frattempo le indagini indussero il pm della Procura di Pescara, Salvatore Campochiaro, a chiedere il rinvio a giudizio nel 2016, ma l'avvocato del sacerdote, Giuliano Milia, si rivolse alla Cassazione, invocando il principio del "ne bis in idem", sulla base del quale non si può essere condannati due volte per uno stesso reato. La Cassazione definì «inammissibile» il ricorso del parroco e i legali della difesa presentarono lo stesso ricorso al tribunale di Pescara, dove il pm Salvatore Campochiaro e l'avvocato di parte civile Vincenzo Di Girolamo si opposero. Il tribunale, infine, scelse di posticipare la decisione sull'eccezione alle fasi successive del giudizio, quando sarebbero state disponibili le motivazioni della Cassazione. La difesa del sacerdote, a quel punto, avanzò la richiesta di rito abbreviato.