Commercianti vessati dalla malaburocrazia

Classifiche a punti e tasse a sorpresa per chi vuole aprire pub, bar e pizzerie Un esperto racconta il calvario di chi ha speso 60mila euro e ha chiuso

PESCARA. Osare, investire, creare occupazione: parole sante in tempo di crisi, ma che sanno di presa in giro quando chi prova a sfidarla, questa maledetta crisi, deve fare i conti con il muro della burocrazia. Quella del Comune di Pescara che non chiede solo certificati e attestati da esibire per l’avvio dell’attività, ma che pretende balzelli per sanare una legge che ancora non c’era (la sanzione pecuniaria di agibilità da 464 euro per gli edifici precedenti al 1939) e stila classifiche a punti. Graduatorie in base a requisiti qualitativi che vorrebbero spingere gli esercenti a qualificare l’offerta, ma che di fatto finiscono per tagliargli le gambe. Perché quando si è investito tutto quello che si aveva e l’unica cosa che si spera è di cominciare a fare cassa, si scopre che per ottenere il sospirato permesso diventano decisivi scaldabiberon e seggioloni, lo steward all’ingresso e menù in triplice lingua, meglio se completi di almeno due vini doc regionali.

Sono, appunto, i requisiti qualitativi previsti dal regolamento degli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande, approvato dal consiglio comunale il 30 giugno del 2010. Requisiti da cui si ottiene il punteggio minimo che varia a seconda delle zone (centro, Pescara Vecchia e altre aree) e in relazione al tipo di attività, e che alla fine dovrebbero aprire la porta ai clienti.

Un calvario comunque, che conosce bene chi per mestiere apre locali per conto terzi, occupandosi di progettazione, ristrutturazione e arredamento, passando naturalmente per le varie Dia, Scia, Suap e Spa. Si chiama Gianluca Cotumaccio (titolare con Barbara Scevola della Sfera design), che al Centro racconta i patemi e le difficoltà di chi ci prova, a reagire. E invece, complice la burocrazia, spesso non ce la fa.

La storia. È il caso di un bar di 40 metri quadrati aperto in via delle Caserme un anno fa e già chiuso, a fronte di un investimento di 60mila euro da parte del titolare che nel frattempo (compresi i cinque mesi di lavori) ha pagato anche l’affitto mensile di 1.700 euro.

«Abbiamo iniziato la pratica ad aprile del 2011», racconta Cotumaccio, «presentando la Scia edilizia in cui s’illustra il progetto con tutte le modifiche da fare, e la Dia sanitaria con cui la Asl valuta come sono messi i bagni, la cucina, i sistemi di ricircolo dell’aria e via dicendo. A lavori conclusi, si va a riaccatastare l’unità e a richiedere l’agibilità. Richiesta che viene approvata, senonchè dall’ufficio edilizio ci chiamano dicendo che ci sono dei problemi. Ci precipitiamo in Comune e lì ci spiegano che l’immobile in cui insiste il locale è precedente al 1939, quando cioè non c’era il testo unico per l’edilizia e non era richiesta l’agibilità. E allora, per questo, mi spiegano in Comune, bisogna pagare la Spa, la sanzione pecuniaria di agibilità, che però non esiste in nessun’altra parte d’Italia: 464 euro da intestare al Comune, servizio Tesoreria. Soldi con cui, come d’incanto, mi viene riconosciuta un’agibilità, quella antecedente al 1939, che però non c’è. Una legge incostituzionale», sostiene Cotumaccio, convinto invece che basti l’agibilità ottenuta tramite i lavori in Scia e Dia. Cosa che aveva fatto, ma che non è bastata: «il committente ha dovuto pagare 464 euro e non ha fatto ricorso solo per la paura di non riuscire ad aprire o di essere poi tempestato di controlli».

I costi. Fin qui, dunque, e si parla sempre di un locale di 40metri quadrati, solo di bollettini (tra marche da bollo, attestati e relazioni) il piccolo imprenditore ha speso un migliaio di euro. Ma va bene così, quasi si illude di potercela fare l’aspirante barista quando, mentre volgono alla fine i lavori per la messa a norma degli impianti e per una minima ristrutturazione del locale, arriva quella che Cotumaccio definisce «la barzelletta finale»: la classifica a punti. Steward fuori, pannelli solari, menù in braille, fasciatoio e scaldalatte, area wireless free, conoscenza di almeno una lingua straniera, rilevatore alcolometrico a disposizione gratuita dei clienti e almeno un metro quadrato riservato all’esposizione di prodotti tipici: sono solo parte dei requisiti richiesti dal Comune per concedere il permesso finale dopo 30 giorni dalla presentazione, con un ulteriore mese di fermo, per l’imprenditore che nel frattempo continua a pagare l’affitto. «Il punteggio massimo è di 100 punti, è chiaro che chi deve aprire va a investire sulle voci che danno più punteggio», dice Cotumaccio, «ma sono voci, com elo steward ad esempio, che poi devi comunque finanziare. Spese che si aggiungono a quelle per i requisiti obbligatori come il sistema di videosorveglianza e che alla fine», sottolinea Cotumaccio, «hanno portato l’imprenditore a spendere circa 60mila euro con la beffa di aver chiuso dopo nemmeno un anno.

L’accusa. «Ma è il momento di mettersi tutti una mano sulla coscienza», chiede Cotumaccio, «e di agevolare questo momento di crisi. Perché la colpa non è di chi sta al front-office del Suap o del responsabile del settore,che si fanno sempre in quattro, ma dei governanti del Comune e delle loro leggi e leggine».

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