I moti e quell’incontro segreto a Popoli 

La stagione più calda della regione ricostruita dai protagonisti, pescaresi, di allora

PESCARA. Il clima era quello di Italia-Germania 4-3, i Mondiali del Messico, giugno 1970.
È in quei giorni che in Abruzzo insieme alle amministrative, il 7 e 8 giugno si svolgono le prime elezioni regionali che davano finalmente forma alle Regioni previste dalla Costituzione. Una questione di cui si parlava da più di vent’anni e sulla quale da altrettanto tempo andava avanti la disputa per il capoluogo tra Pescara e L’Aquila. Ma dopo le elezioni, la disputa diventa una finalissima e i toni si fanno improvvisamente caldi, da subito. Prima a Pescara che con ripetuti scontri notturni post partite mondiali, davanti alla stazione e alla prefettura caldeggia la sua incoronazione tra sassaiole e cariche della celere e poi, l’anno dopo, all’Aquila, quando gli aquilani ottengono sì il capoluogo che già ritenevano proprio per diritto geografico e naturale, ma con la beffa di vedere assegnati sette assessorati a Pescara e solo tre all’Aquila. E si scatenò la guerriglia.
È questa l’estrema sintesi di una stagione che è andato a rispolverare un ordine del giorno presentato due giorni fa dal centrodestra pescarese, e approvato dal consiglio comunale (14 favorevoli e 9 contrari) grazie al Pd spaccato. Un ordine del giorno che torna a chiedere Pescara capoluogo di regione. Ora come allora, quando proprio la destra, come oggi il centrodestra, cavalcò la protesta che divise la Dc così come oggi divide il Pd, infiammando la città al punto da raccogliere in un’associazione, Pescara nostra, anime liberali e democratiche della società civile pronte a schierarsi per il capoluogo. Per cui anche l’allora vescovo Antonio Iannucci fu quasi trascinato a manifestare dai manifetsanti che andarono a chiamarlo direttamente in Curia.
«Tornare agli anni Settanta rende più vivo il rimpianto di una grande occasione mancata, lascia più intensa la sensazione che quell’ultima battaglia regionale, con un referendum, non l’avremmo perduta», commenta Francesco Mancini, dirigente d’azienda ma soprattutto figlio di Antonio Mancini che prima come sindaco di Pescara tra il 1956 e il 1962 e poi come deputato Dc tra il ’63 e il ’76 creò le basi concrete (autostrada, università, asse attrezzato e stazione) per la grande area metropolitana di cui si parla ancora oggi, e per Pescara capoluogo. Un obiettivo per cui presentò lui stesso, nel 1968, alla commissione interna della Camera, una mozione. Ma andò in pareggio e non se ne fece più niente. «Da pescarese sono orgoglioso», continua Francesco Mancini che a giugno di quel 1970, appena diciassettenne, era anche lui in piazza a manifestare per Pescara capoluogo, «e da abruzzese lo sono altrettanto che quell’ultima battaglia non si sia combattuta. Lo statuto regionale designa L’Aquila come capoluogo, Pescara come centro del governo e dello sviluppo delle attività economiche e produttive della regione. Credo che quel patto antico sia ancora valido».
«Obiettivamente Pescara è la zona centrale d’Abruzzo», rivendica l’avvocato Giorgio Di Carlo fautore nel 1971, come segretario provinciale della Dc, dell’accordo che fece infuriare gli aquilani per la storia degli assessorati. «Fu deciso in un incontro segreto a Popoli, all’hotel Tremonti, tra me e il segretario provinciale della Dc aquilana Fabiani. Fu un incontro riservato dopo la riunione che c’era stata a Roma, quando il segretario generale della Dc Forlani convocò tutti gli esponenti delle quattro provincie, senza riuscire ad arrivare ad un accordo. Allora disse vedetevela voi, riflettete e decidete». E la decisione, di fatto, fu quella di lasciare formalmente il capoluogo all’Aquila e di privilegiare Pescara nella sostanza. Se ne resero subito conto gli aquilani quando, nella sala della Prefettura dell’Aquila, il 26 febbraio del 1971 il presidente del consiglio regionale Emilio Mattucci comunicò quelle scelte alla platea convinto di aver sciolto il nodo della questione. Tutt’altro. «Si sono venduti il capoluogo», fu la sintesi degli aquilani che con un pomello del tendone scagliato contro il lampadario di cristallo di quel salone diedero il via ai disordini e agli scontri che culminarono nell’incendio appiccato a casa di Fabiani. «Gli aquilani si sentirono bugerati », ricorda Di Carlo, «a noi ci fecero uscire da un’uscita segreta e per farmi largo tra i rivoltosi Carboni spingeva facendo finta di far parte della folla. Ma una volta tornati a Pescara fummo accolti dal sindaco Casalini, dal consigliere regionale Giustino De Cecco, dal presidente della giunta regionale Ugo Crescenzi e da Piscione. C’era una grande soddisfazione. Ma obiettivamente Pescara era e continua a essere il punto di riferimento della regione, basta vedere il numero delle persone che ogni mattina entrano in città. Fermo restando che vanno valorizzate le caratteristiche storiche e culturali dell’Aquila».
In quella stagione calda, accanto a Di Carlo c’era Giuseppe Quieti, vice presidente provinciale della Dc, assessore comunale e futuro deputato. «Ho difeso Pescara ed ero schierato come tutti i pescaresi in favore di Pescara capoluogo», ricorda oggi Quieti, «in quel compromesso prevaleva l’interesse a non frammentare questa regione già così in ritardo, e il bene supremo dell’unità ci fece passare sopra anche alla non totale accettazione delle nostre rivendicazioni. Ma tornare a parlare ora di Pescara capoluogo», ammonisce Quieti, «vuol dire intrecciare la questione con quella della Grande o Nuova Pescara. In questo momento anticipare scelte future crea solo ulteriori animosità e motivi di contrasto che vanno a complicare il processo di unificazione».