IL CONTE E IL SINDACO
Racconto in gara per la quinta edizione del concorso letterario “Montesilvano scrive”. Clicca sui tasti di condivisione per votarlo
IL CONTEST Tutti i racconti in gara
IL REGOLAMENTOPartecipa anche tu
Pecorino, pane di castagne, una fiaschetta del vino leggero e aspro della montagna. Era il pasto quando salivamo al bosco a tagliare la legna.
Ma gli alberi non erano nostri, erano del Conte.
Noi ci spaccavamo la schiena e lui contava i denari della vendita del legname, o meglio, li faceva contare da qualcuno. Lui non toccava i soldi, era un signore.
Polenta, un pezzo di formaggio e, finché ce n'era, un po' di picciolo. Era il pasto della sera.
Di giorno a sgobbare nei campi del Conte, curvi sull'aratro, sulla vanga o sulla zappa, a seminare, annaffiare, sarchiare.
Del raccolto ci lasciava un po' di mais e poco altro, appena sufficiente per sfamare noi e i nostri figli.
Dopo la vendemmia ci consentiva di fare il picciolo con gli scarti della raccolta. Lui era generoso.
In realtà tutti sanno che il picciolo non è commerciabile, né del resto il Conte lo avrebbe mai bevuto.
Di tanto in tanto arrivava in città un carico di vino e spumante dal Piemonte. Noi dovevamo lasciare ogni nostra incombenza, prendere il barroccio e riportarlo pieno nelle cantine del Conte. Il signore non beveva il vino delle proprie terre.
Un giorno arrivò la notizia che in città c'era la rivoluzione. La gente si era adunata in piazza, si diceva che avevano sparato coi moschetti ed anche con il cannone.
Erano momenti turbolenti, nessuno sapeva cosa sarebbe successo. Noi, poveri ed analfabeti, meno che mai.
Mansueti e timorosi sul da farsi rimanemmo in attesa. Poi un pomeriggio salì al podere un drappello di uomini con delle coccarde e dei fucili. Eravamo sorpresi e confusi. Colui che doveva essere il capo ci intimò di accompagnarlo dal Conte.
Quando il Conte si vide davanti la milizia sbiancò e iniziò a balbettare. Cercò di rassicurare i rivoluzionari che era contro la monarchia, anzi, era un liberale. Non aveva mai combattuto per la repubblica, ma solo perché in avanti con l'età e di salute cagionevole. Dichiarò a gran voce che aveva sostenuto da sempre la rivoluzione, come le sue pur scarse capacità economiche consentivano. Chiedessero pure in città. Leggessero pure le carte che mostrava loro.
I rivoltosi abbassarono i fucili ad un segno del loro capo e smontarono da cavallo. Nel frattempo furono aperti i portoni del palazzo ai forestieri, che entrarono. Noi villici però fummo lasciati fuori.
La sera ci fu una grande festa al palazzo dal Conte. Dalle nostre case sentimmo ridere e cantare la soldataglia per tutta la notte.
L'indomani mattina fummo convocati dal nostro signore.
Quando entrammo nel salone vedemmo i resti del banchetto. Un gran numero delle bottiglie piemontesi, di cui bene conoscevamo il peso, vuote. Il costato di un maiale, i resti di pollame e di cacciagione erano sparsi un po' ovunque e in grande quantità.
Dei rivoluzionari non vi era alcuna traccia.
Mio figlio, alzatosi molto presto per mungere qualche pecora, bisbigliò che la milizia se ne era andata, portandosi dietro alcuni animali e un paio di carri pieni di roba.
Il Conte ci accolse radioso e con un grande sorriso solennemente pronunziò: "Cari fratelli, questo siamo. Abbiamo vinto la rivoluzione contro un'odiosa monarchia, che tanto ci ha oppresso in questi anni. Da oggi non voglio più sentirmi chiamare Conte. Da nessuno di voi. Siamo tutti uguali. Da oggi, per voi e chiunque, sarò il Sindaco di questo Comune".
Rimanemmo sbigottiti e in silenzio. Poi capimmo, udendo le parole del Sindaco.
"Che fate lì impalati? Non vedete la confusione di questa stanza? Ripulite tutto in fretta e tornate alle vostre occupazioni".
©RIPRODUZIONE RISERVATA