Il procuratore Bellelli in volo sulla scia della valanga di Rigopiano: «Tragedia prevedibile»

L'intervista al Centro: «Il disastro non è stato previsto per leggerezza e superficialità. E poi era sconveniente, in Abruzzo, dire che le nostre montagne potevano essere anche fonte di pericolo»
FARINDOLA. Dall’alto dell’elicottero della Guardia di Finanza Aw139, la parete ripida e densa di alberi del Monte Siella si staglia come un muro che sembra impossibile da superare. La cima misura 2.027 metri, quasi mille metri più in basso c’è quello che resta dell’hotel Rigopiano, il sogno infranto di fare una piccola Cortina d’Ampezzo a Farindola. La vetta e l’albergo distrutto sono uniti dalla scia della valanga che, il 18 gennaio del 2017, ha provocato 29 morti, persone che volevano scappare ma non hanno potuto farlo perché il resort era rimasto isolato per la troppa neve. Otto anni e mezzo dopo, quella traccia che si fa largo prepotente tra il verde rigoglioso resta una ferita scavata nella montagna: è il paesaggio che si interrompe all’improvviso. Dentro l’elicottero c’è il procuratore di Pescara Giuseppe Bellelli che, con il suo cellulare, scatta foto per ricordare quello che aveva capito già.
Non è la prima volta che Bellelli sorvola l’area del disastro: l’aveva fatto ancora prima di prendere in mano le migliaia di pagine del fascicolo giudiziario perché, dall’alto, si apre un altro punto di vista e la realtà si mostra per quella che è davvero. Durante la requisitoria del processo di primo grado, Bellelli aveva parlato di «tragedia prevedibile» in uno scenario di montagna che già in passato, nelle vicinanze, era stato segnato da una sequenza di altre valanghe: da duemila metri di altezza, si vede il canalone del Monte Siella che conduce dritto fino all’hotel devastato. È proprio questa immagine aerea a confermare la tesi della prevedibilità e della possibilità che, un giorno, proprio lì, si staccasse una valanga dalla forza impressionante come quattromila tir a pieno carico. Una verità storica che però, da un certo momento in poi, era stata rinnegata anche dalla politica, quella che ha invece il compito di pianificare, perché gli occhi erano annebbiati dal sogno del turismo montano.
Procuratore, cosa si vede dall’alto?
«Si vedono non solo i luoghi della sofferenza e della tragedia umana, ma i luoghi da dove la forza di gravità ha spinto, attraverso un canale tra le montagne, tanta neve e quindi la valanga. Apprezzare la profondità dei luoghi e l’inclinazione, permette di renderci conto di quello che, ormai, è già una verità processuale, ovvero della prevedibilità dell’evento valanga rispetto al punto in cui poi è terminata, cioè la zona in cui era situato l’hotel Rigopiano. Era proprio in un punto dove non poteva escludersi l’evento disastroso. La visione della tridimensionale ci dà conferma di quel vissuto tragico come un evento certamente prevedibile ed evitabile».
Otto anni e mezzo dopo, si vede ancora, nettamente, il segno della valanga: si nota il canalone che arriva al punto esatto in cui c’era l’albergo. Si poteva non sapere?
«È davvero non ammissibile parlare di fatalità o imprevedibilità: basta recarsi sui luoghi per vedere, da un punto di vista proprio vivo e reale, quello che è avvenuto».
E il fatto che ci fossero state delle valanghe nelle adiacenze di Rigopiano, quanta rabbia fa?
«La rabbia è un sentimento umano che naturalmente c’è in questa vicenda, ma chi deve occuparsene in maniera professionale e tecnica dice che era un evento prevedibile ed evitabile. Appellarsi alla fatalità e al fatalismo, sarebbe davvero quasi un secondo delitto».
E dopo tanti anni, la sua idea qual è? Perché non è stata prevista quella valanga?
«Per leggerezza, per superficialità e perché non era conveniente in terra d’Abruzzo pensare e dire che le nostre montagne sono anche una fonte di pericolo oltre che di ricchezza e risorse naturali. Non è conveniente dirlo da un punto di vista economico, politico e sociale e servono eventi come questi, forse, per affinare le nostre sensibilità e la consapevolezza dei rischi che possono verificarsi, anche a fronte di attività economiche in prossimità di luoghi esposti a eventi naturali».
La saggezza popolare degli anziani di Farindola ricorda che, in passato, lì c'erano stati, di certo, almeno piccoli e medi eventi valanghivi ma, a un certo punto della storia, questo fattore di rischio sembra essere stato dimenticato: com’è possibile?
«Siamo un paese dove la memoria è sempre più difficile ed è sempre a brevissimo termine. Invece, basta risalire e tornare indietro di qualche decennio per avere contezza e consapevolezza di quello che è avvenuto e di quello che può ripetersi».
A breve, dopo la Corte di Cassazione, ci sarà un altro processo davanti alla Corte d’appello di Perugia.
«Se ne occuperà l’autorità giudiziaria competente, alla luce dei principi di diritto enunciati dalla Corte di Cassazione che sono assolutamente insuperabili, gli stessi che abbiamo sempre sostenuto fin dal primo grado, anche con l’esercizio dell’azione penale, cioè la prevedibilità ed evitabilità del disastro, che è un disastro naturale ma incide sull’attività umana. Gli uomini avevano il dovere morale, oltre che giuridico, di porsi il problema».
Da uomo, e non da procuratore, cosa prova a guardare dall’alto quella scia?
«Si ricorda lo scenario di una tragedia umana collettiva, delle vittime e dei loro familiari; può ascoltarsi ancora, in quel silenzio, la voce delle vittime, in luoghi così belli diventati poi anche luoghi di sofferenza. La natura segue il proprio corso, le proprie leggi, e noi uomini quando ci avviciniamo con la logica del profitto e con la logica dello sfruttamento andiamo inevitabilmente a porci in contrasto con queste regole».
Lei una volta ha detto che questa storia è un disastro all’italiana.
«Una gestione superficiale, certo. Non fa comodo dire che, nel nostro territorio, vi sono i rischi dovuti alle nostre bellissime montagne d’inverno o d’estate, così come non fa comodo a volte dire che il nostro territorio è soggetto ad infiltrazioni di criminalità anche di origine mafiosa, come è emerso per esempio con la sentenza del processo sull’omicidio della Strada parco di Pescara: non fa comodo dirlo, è meglio sottacerlo».
Ai parenti delle vittime, noi giornalisti chiediamo spesso se ci sarà mai giustizia per Rigopiano: se facessi a lei questa domanda, cosa direbbe?
«Non so rispondere, noi compiamo il nostro dovere consapevoli degli errori e dei limiti della giustizia umana».
Anche la giustizia ha bisogno di una visione dall’alto.
«Non è solo il senno di poi che ci fa dire che quello che è successo poteva essere previsto, ma anche provare a guardare le cose ex ante. In fondo, il dovere del giurista è proprio questo: valutare i fatti da quello che era il punto di vista di prima».
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