Pescara

Il traffico della cocaina a Pescara gestito dal carcere: due arresti

2 Ottobre 2025

L’inchiesta della Guardia di Finanza. Angelo Medoro resta in cella, Luca D’Annunzio ai domiciliari, obbligo di firma per Mattia Tinari. Il giudice: «Sono misure inevitabili per contenere in modo efficace la loro pericolosità criminale»

PESCARA. Uno smartphone illegale che squilla in una cella del carcere di San Donato. È da qui, da un luogo che dovrebbe isolare dal mondo, che secondo la procura di Pescara partivano gli ordini per orchestrare un traffico di cocaina, trasformando la detenzione in un’opportunità di business. Un sistema criminale che si riteneva intoccabile, ma che è stato smantellato con l’ordinanza firmata dal giudice Francesco Marino, su richiesta del pubblico ministero Gennaro Varone, dopo le indagini della guardia di finanza. Il provvedimento ha applicato una nuova misura di custodia in carcere per Angelo Medoro, 47 anni, ha disposto gli arresti domiciliari per il suo socio di cella, il ventunenne Luca D’Annunzio, e l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per il presunto braccio destro all’esterno, Mattia Tinari, 24 anni.

L'inchiesta prende le mosse dal sequestro di oltre un chilogrammo di cocaina, avvenuto il 9 gennaio 2025. Quel giorno, gli investigatori monitorano un viaggio da Roma a Pescara, con un’Opel Corsa con a bordo Davide Di Silvestre e Mattia Tinari, che funge da «staffetta apripista» per una Renault Clio che, condotta da Giovanni Antonio Gabriele, trasporta la droga. La destinazione è un appartamento in via Fonte Romana, di proprietà di D’Annunzio, dove attendono Niko Medoro, figlio di Angelo, e Roberto Salutari. La telecamera documenta ogni movimento: l’arrivo delle auto, Di Silvestre che scende dalla Clio con una busta di plastica, l’ingresso nell’edificio. Poco dopo, escono Gabriele e Tinari. Alle 20.20, quando anche Di Silvestre, Niko Medoro e Salutari lasciano l’abitazione a piedi, scatta il blitz. Il giovane Medoro tenta una mossa disperata, lanciando via le chiavi, ma vengono recuperate. All’interno, la scoperta: un chilo e ottanta grammi di cocaina, suddivisi in cinque involucri, insieme a un bilancino di precisione e una macchina per il confezionamento sottovuoto, l’attrezzatura di un’impresa che non conosce pause. Quel colpo, tuttavia, non decapita l'organizzazione. Ne svela solo la struttura operativa esterna, spingendo gli inquirenti a cercare la vera cabina di regia.

Le microspie installate nella cella di Medoro e D’Annunzio svelano la realtà. Le conversazioni registrate, secondo il giudice, documentano la prosecuzione della gestione del traffico illecito anche in cella. Il 22 febbraio, i due detenuti discutono del loro commercio come contabili a fine giornata: parlano di una partita di droga per un tale «Emilio» e di altri 200 per un certo «Alex», specificando che quest’ultimo paga in contanti. Dalle loro voci emerge anche la frustrazione per l’affare andato in fumo a gennaio: D’Annunzio si lamenta del mancato guadagno di «circa 15.000,00 euro». L’attività è frenetica e capillare.

L’ordinanza ricostruisce una fitta rete di cessioni che dimostrano come il traffico non si sia mai fermato: 300 grammi a Tinari, un grammo a F.L. il 21 febbraio scorso, «alcuni grammi» a L.B. il giorno dopo. Proprio un’intercettazione con quest’ultimo, il 27 febbraio, in cui si parla di «fare una cosa volante come ieri», porta al sequestro di altri 5,42 grammi di cocaina il 4 marzo, trovati in possesso di S.G.R. dopo un incontro con Tinari.

«Nei confronti di Angelo Medoro e Luca D’Annunzio», scrive il gip, «persone in grado di continuare a gestire un traffico di sostanze stupefacenti addirittura durante il periodo di detenzione carceraria, appare davvero inevitabile l’applicazione di una misura cautelare efficace a contenere la loro pericolosità criminale».

Per il gip, nel caso di Angelo, dal «rilevantissimo curriculum criminale», il pericolo che possa tornare a commettere reati analoghi è «davvero elevatissimo». Nonostante si dichiari «totalmente estraneo», è lui a stabilire che i profitti vadano «divisi per quattro», includendo se stesso, il figlio, D'Annunzio e Di Silvestre.

D’Annunzio è il finanziatore, il giovane socio che investe e si preoccupa di proteggere il capitale, arrivando a pagare – dice sempre l’accusa – le spese legali degli arrestati per comprarne la fedeltà e il silenzio. Tinari è il braccio operativo all'esterno, l’uomo indispensabile per le consegne e i contatti sul territorio. A rendere possibile tutto questo è lo smartphone, il vero scettro del comando. Il suo possesso e utilizzo in cella viene contestato non solo ai due Medoro e a D’Annunzio, ma anche a una quarta persona, a riprova di come la tecnologia fosse il fondamento del loro potere, il ponte che annullava le sbarre e garantiva la continuità degli affari.

Accogliendo l’impianto accusatorio, il giudice Marino calibra le misure sulla caratura dei singoli, respingendo le obiezioni difensive, come l’istanza di «ne bis in idem» per Tinari. Per Angelo Medoro viene disposta la custodia in carcere, l’unica in grado di «scongiurare la continuazione di tale illecita attività». Per D’Annunzio, invece, il gip tiene conto della giovane età, elementi che, uniti all’ammissione di responsabilità per il reato più grave, consentono di concedere i domiciliari. Per Tinari, infine, l’obbligo di presentarsi in caserma ogni giorno, una misura che considera i suoi precedenti non allarmanti, anche se – sostiene sempre l’accusa – era pienamente integrato nel gruppo criminale che faceva affari da dietro le sbarre.