Monsignor Valentinetti: “I miei 25 anni da arcivescovo. La mia festa è tra la gente”

Il 20 maggio la guida spirituale di Pescara festeggia un quarto di secolo di episcopato: «Ce l’ho messa tutta, tra due anni andrò in pensione. Serve dialogo con i fedeli»
PESCARA. Monsignor Tommaso Valentinetti, arcivescovo di Pescara-Penne, compie 25 anni di episcopato: il giorno della festa è il 20 maggio con una messa (ore 19) nella cattedrale di San Cetteo. In un’intervista a “31 minuti”, in onda questa sera alle ore 22 su Rete8, Valentinetti racconta il suo viaggio della fede, da parroco di paese ad arcivescovo.
Monsignor Valentinetti, 25 anni da arcivescovo sono tanti o sono pochi?
«Nella normalità non dovrebbero essere tantissimi, ma 25 anni di episcopato attivo cominciano ad essere un bel numero».
E cosa pensava la notte prima di essere ordinato arcivescovo?
«Ho cercato di dormire perché l’emozione sicuramente era abbastanza forte e sapevo che mi aspettava una giornata molto intensa».
Ci pensava che dopo quella notte sarebbe cambiata la sua vita?
«In verità, la mia vita era cambiata già il 25 marzo, quando avevo avuto la notizia della nomina. Ma in definitiva proprio cambiata no, perché è vero che assumevo delle responsabilità non indifferenti, ma mi si chiedeva di essere pastore secondo il cuore di Dio. Io ho fatto il parroco per 21 anni e la chiamata all'episcopato mi è sembrata quasi un approfondimento del mio essere parroco in mezzo alle persone che avevo incontrato da quando ero diventato sacerdote nel 1977».
Con il senno di poi, dopo 25 anni, sente di aver fatto un buon lavoro?
«Credo che non si deve montare in superbia. Ci sono state le cose buone, le cose belle, ci sono state le fatiche, i momenti difficili. Ci sono state, diciamo così, tante situazioni della vita e del ministero episcopale che portano a dire che io ce l’ho messa tutta fino adesso: mi mancano ancora due anni perché a 75 anni dovrei andare in pensione. Però il risultato non spetta a me giudicarlo».
La morte di Papa Francesco e l’elezione di Papa Leone XIV ci ha ricordato la centralità della Chiesa per le persone e anche per i destini dell'equilibrio internazionale: oggi quanto è importante la Chiesa?
«La Chiesa svolge sicuramente un ruolo molto importante, ma la coscienza di questo ruolo, così come ha sottolineato in uno dei suoi primi discorsi Papa Leone XIV, è fondata sulla comunicazione della fede. La fede in Gesù Cristo, che deve tornare al centro della vita dell'umanità, si è indebolita, si è affievolita. E chiaramente questa è la comunicazione più importante, perché se si rigiocano le vite sulla dimensione della fede, forse possiamo instaurare un dialogo ancora più maturo e ancora più veritiero sulle questioni poi che riguardano tutta l’umanità».
Papa Leone ha esordito parlando della pace: lei è sorpreso oppure era un debutto indispensabile visti i tempi?
«Lui ha tenuto a precisare che è il primo saluto del Cristo risorto. La sera di Pasqua, quando Gesù appare ai suoi discepoli, la prima cosa che dice è “pace a voi”. Ora, dobbiamo essere molto attenti a questa dimensione della pace come saluto del risorto perché presumibilmente si fa riferimento allo shalom ebraico, la cui traduzione è “la pienezza della vita, la pienezza della vita nuova”. Allora, è chiaro che questo “pace a voi” esclude i conflitti, le controversie, le cattiverie, le vendette, guerre terribili che si stanno consumando nel mondo intero e che sono distruzione e morte, purtroppo molto spesso per gli innocenti, perché chi muore e paga le conseguenze di un conflitto sono sempre più gli innocenti, i bambini in modo particolare».
E oggi è realistico parlare di pace?
«Bisogna scommettere sulla pace e bisogna essere uomini di pace, uomini e donne di pace, perché solo se scommettiamo sulla pace, che comincia dal basso, che comincia da noi, dai nostri piccoli e grandi conflitti personali, solo se scommettiamo sulla pace, solo se mettiamo in pratica quella parola che sempre Papa Leone XIV ha detto all’inizio “se siamo costruttori di ponti, più che distruttori di ponti, allora sicuramente la pace può regnare sulla faccia della terra”. Purtroppo il mondo è governato da forze politiche e economiche che molto spesso non credono nella pace. Papa Francesco più volte ha fatto appello ai commercianti e ai costruttori delle armi. Io ho avuto un’impressione che la guerra in Ucraina particolarmente fosse una guerra per sperimentare delle nuove armi e per metterle in commercio».
Lei è a Pescara nel 2005, sono passati vent’anni: in questo tempo quanto è cambiata la città?
«La città è cresciuta e sicuramente anche nel bene, nella realtà complessiva, ma si sono moltiplicati anche episodi di violenza e contrasti anche nelle zone periferiche. Però la città è cresciuta in un cammino di ricerca: credo che sia maturata una coscienza di essere la città al centro della regione. Questo lo sperimentiamo anche nelle nostre piccole e grandi strutture, la Caritas diocesana non raccoglie solo i poveri della realtà pescarese, raccoglie anche i poveri del circondario, non solo della diocesi, ma anche i che provengono da altre zone dell’Abruzzo».
Dal suo punto di vista, la classe politica abruzzese è preparata per governare i cambiamenti di questo tempo così strano?
«Mi sono espresso più volte su questo argomento richiamando i responsabili della politica a una maggiore preparazione, a una minore improvvisazione, ad essere più capaci non tanto di coprire spazi e mettere, oserei dire, delle pezze alle varie richieste che ci possono essere, ma quanto a pensare un po’ di più alla grande, un po’ di più allo sviluppo. Molto spesso, mi spiace dirlo, ma la presenza di chi svolge un servizio da un punto di vista comunale, provinciale o regionale è più in funzione di una ipotetica riconferma, che non un essere capace di servire il bene comune o di voler servire il bene comune. La gente non va più a votare o perlomeno va a votare in maniera molto discontinua e con affluenze molto basse. Questo è preoccupante perché se non si sente il bisogno di mandare cittadini a governare il bene comune o si è un po’ scoraggiati di fronte a questo tipo di realtà, certamente le cose non possono funzionare bene».
Qual è il momento più bello di questi 25 anni?
«Il momento più bello è quando incontro la gente e le parrocchie, quando sperimento un affetto sincero da parte dei bambini, quando rivedo gruppi di giovani che non sono tantissimi in questo tempo, ma che si impegnano: sabato scorso abbiamo avuto un bel momento con i giovani a Pescosansonesco».
E, invece, il momento più brutto?
«Quando ho sperimentato delle contraddizioni ingiuste, sicuramente non belle e non veritiere, però credo che faccia parte del ministero episcopale: noi tutti abbiamo due popoli, chi ci dice bene e chi ci dice male, solo che chi ci dice bene magari sono persone semplici, umili e chi ci dice male qualche volta crea situazioni imbarazzanti e certamente non significative, però la croce bisogna portarla».
Le hanno fatto male queste contraddizioni?
«Più che male, amarezza perché ingiustificate».
Ma dopo tutti questi anni alla guida di una comunità di fedeli, ce l’ha un sogno?
«Con le parrocchie, stiamo cominciando un nuovo progetto pastorale che si basa sull’ascolto dei fedeli: 35 parrocchie su 120 stanno scrivendo il loro sogno missionario e io non posso fare altro che sposare quel sogno».
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