Palestra Malibu, quando Pescara faceva ancora tendenza: «Qui è passato di tutto»

19 Novembre 2025

Ivana Di Pietro racconta quegli anni nell’ex mattatoio di via Gran Sasso. Dal logo “Slegati” (ideato da Cannoni) alle gare alla Fabbrica, fino agli amori

PESCARA. «Ma sei Ivana di Malibu?». Ivana Di Pietro ha 60 anni e da oltre 15 lavora nell’azienda di famiglia, la Lucente, oggi “Integra”. Eppure è ancora questa la domanda che si sente fare non solo da chi frequentava la sua palestra di via Gran Sasso, passata di recente a una società di costruzioni dopo la lunga diatriba politica per un eventuale acquisto da parte del Comune, ma anche da tanti giovani che di quella magia hanno solo sentito parlare.

Una magia durata quasi 16 anni, da dicembre del 1993 a luglio del 2009, quando gli iscritti erano mille l’anno, i bambini della ginnastica artistica vincevano con il russo Vladimir Sinitchenkov e la palestra, quella palestra, era tante cose insieme. L’hanno ricordato, poco più di un mese fa gli ex dipendenti e clienti che Ivana Di Pietro ha riunito per la sua festa di 60 anni perché, come racconta lei stessa, «quando ho chiuso e venduto lo stabile non c’era stato modo, e questa è stata l’occasione per rivederci. Dopo ho pianto per dieci giorni, un amarcord senza fine, tanti momenti belli vissuti come una famiglia».

Ivana, allora partiamo dall’inizio. Com’è nata Malibu, e perché questo nome?

«Sono diplomata Isef, vengo da questo settore, all’epoca avevo 27 anni e sognavo di creare un posto bello dove allenarsi, quando le palestre erano spesso ex capannoni, posti bui e tristi. Trovammo l’ex mattatoio di via Gran Sasso che trasformammo da zero, e questo fu il nostro primo punto di successo, adattandolo precisamente a quello che dovevamo farci. Un progetto ad hoc realizzato con l’architetto Giampiero Lettere e poi veicolato a livello grafico e di marketing dal genio di Enrico Cannoni, purtroppo scomparso di recente, che si inventò il logo e quello slogan che poi caratterizzò tutto il nostro merchandising, “slegati”. L’invito all’inaugurazione era una scatola che conteneva un gomitolo di spago, con la scritta “Slegati” che intendeva il fisico, ma anche la mente. E la chiamai Malibu un po’ perché la California è la patria del fitness, ma anche per tutto quello che evocava e che ci ho messo dentro: la luce, i colori, l’energia. Erano 1.200 metri quadrati su tre livelli. Al piano terra reception, sala pesi, spogliatoi, zona bar e tavolini dove socializzare e pranzare, con una scala a tutta vetrata che illuminava la struttura al primo piano con più sale corsi, il terrazzo per gli eventi e dal 2000, al terzo piano, il centro benessere con sauna, bagno turco, centro estetico, massaggi shatsu e solarium. E senza parlare delle attività extra».

Invece ce ne parli.

«Intanto l’estate, siamo stati i primi a inventarci la palestra in spiaggia. “Malibu on the beach” inizialmente al Delfino verde, poi all’Orsa maggiore e nel 2000, la stagione clou, all’Arena del mare, quando piantammo perfino delle palme per fare la maxi pista da biglie. Ricordo solo che l’estate raddoppiavamo impegno e attività. E poi le feste. Natale, Carnevale, Halloween, la festa di Primavera, un impegno per tutto lo staff, il commerciale, per tutti. L’obiettivo era far dire ai nostri clienti “voglio andare in palestra” e non “devo andare in palestra”. Chiaramente questo ha richiesto uno sforzo organizzativo, economico, commerciale e tecnico enorme. Ma lo staff era forte e motivato».

E la clientela?

«Non riesco a definirla. All’epoca ci chiamavano la palestra dei vip, ma quali vip. Invece era una clientela molto variegata, dai bambini della ginnastica artistica con le mamme che poi si iscrivevano ai nostri corsi, alle signore del mattino che venivano a fare posturale fino a tutta quella fascia di trentenni che si affacciava nel mondo del lavoro. Tanti professionisti di oggi, di cui non faccio nomi, tra i 25 e i 35 anni, che a Malibu avevano trovato l’ambiente giusto».

Molti amori?

«E mica pochi. Credo che abbiamo creato più famiglie noi di non so chi. La palestra era un centro di aggregazione vero. Si sono formate coppie nello staff, coppie tra clienti e staff, coppie tra clienti. Tantissimi sono rimasti insieme, qualcuno si è lasciato, ma tante coppie sono nate lì dentro».

Era una Pescara “malata” di palestra?

«C’era molta attenzione per il fitness, ma quello era anche un periodo di grande fermento, ogni 6 mesi arrivavano sul mercato attività e attrezzi nuovi con cui fidelizzare i clienti».

Tipo?

«Abbiamo iniziato con l’aerobica e poi sono arrivati lo step, il total body, lo slide. Siamo stati tra i primi a proporre lo spinning e poi l’hip hop. E poi c’è da dire che Malibu era anche un centro di formazione tecnica. Grandi realtà del mondo del fitness come Nike, Reebok, Tecnogym, ci sceglievano come centro di formazione per tutte le realtà del centro sud perché avevamo spazi e organizzazione giusta. Ma, ripeto, a Malibu si veniva anche solo per un pranzo veloce, per una lampada o per i massaggi. Facevamo anche i corsi di mental coaching, le abbiamo cavalcate tutte. Lo staff, siamo arrivati a 15 persone fisse più qualche esterno, era pronto su tutti i fronti ed è stata la nostra forza. Siamo cresciuti insieme fino a diventare una realtà aziendale vera e propria».

E poi, perché ha chiuso?

«La prima cosa che mi ha insegnato mio padre Emidio, imprenditore, che mi ha sostenuto in questo sogno, è che l’impresa per esistere deve avere il suo profitto. A un certo punto, dopo la crisi del 2008, questo profitto era diventato pesante da raggiungere, lo stesso mercato del fitness era molto vivace, palestre nuove di continuo, era diventato un gioco al ribasso. E quando mi sono resa conto che l’abbonamento era arrivato a costare meno di quando avevo iniziato, ho detto basta. Sono rimasta incinta, avevo 43 anni di cui gli ultimi 17 passati lì dentro dalla mattina alla sera, avevo esigenza di altro. Il mio sogno l’avevo realizzato, bellissimo ma faticosissimo. È vero, nell’ambiente c’era chi diceva che tanto io avevo i soldi di mio padre. Sicuramente all’inizio è stato decisivo per iniziare, ma poi ho dovuto camminare con le mie gambe e quando non è stato più il caso, e avrei anche potuto ribussare, ho detto basta».

Per chi non l’ha vissuta, cos’era la palestra Malibu?

«Era il posto magico dove passare la giornata, dove oltre alle lezioni normali succedevano tante altre cose».

Per esempio?

«Una cosa bellissima erano i Flash game, la gara tra palestre che si faceva alla Fabbrica, la discoteca di grido di allora. Quasi tutti i dj venivano da noi e ci si inventò questa cosa, con le esibizioni in discoteca prima della serata disco. Gare di hip hop, step danzato e coreografie in cui il cliente della palestra diventava protagonista, e allora succedeva che dopo la fine dei corsi chi preparava la gara rimaneva lì a provare. Era la parte ludica che cementava la gente di Malibù».

Cosa resta di quella Pescara?

«Bella domanda. I pescaresi sono ancora molto attenti all’aspetto fisico, ma vedo molte scorciatoie, in tanti vanno dal medico estetico. Le palestre sono in crisi. Oggi chi vuole raggiungere l’obiettivo va dal personal trainer, pagando. Oppure si va in palestra come centro di aggregazione. Il difficile è riuscire a unire le due cose, ma questo implica anche un discorso di costi che sono diventati pesanti per tutti».

Mai la voglia di riaprire un’altra Malibu?

«No no, anche se me lo hanno chiesto e anche se ancora mi capita, com’è successo quest’estate, che qualche istruttrice giovane senta il mio nome e mi chieda, “Ma sei Ivana di Malibu?”. E lì sì, certo che mi fa sempre piacere».

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