Pescara, ruba 20 mila euro al Cup e non li restituisce

Dipendente già condannato dalla Corte dei Conti si tiene i soldi pagati dai pazienti per visite ed esami, ora la Asl gli fa causa

PESCARA. Un furto andato a monte alla cassa del Cup nel distretto sanitario di Pescara Nord nella notte tra il 31 marzo e il 1° aprile 2014. E l’addetto all’apertura, l’unico che ha le chiavi, che accampa scuse su scuse per non aprire quella cassa danneggiata dai ladri. E ci riesce per oltre un anno, fino al 22 maggio 2015 quando la cassa viene forzata da una ditta specializzata. Sorpresa: all’interno, anziché quasi 20 mila euro, ci sono «solo le monete per un totale di 112,35 euro essendo vuoti i contenitori delle banconote». Da allora, sono passati quasi tre anni e una condanna della Corte dei Conti, ma il dipendente accusato di aver rubato quei soldi non li ha ancora restituiti. E la Asl è pronta ad avviare un’altra causa per riavere i 19.250 euro, soldi pagati dai cittadini per le visite mediche e gli esami specialistici. «È precipuo dovere nonché interesse della Asl», recita la delibera del direttore generale Armando Mancini, «porre in essere tutte le attività necessarie per ottenere l’esecuzione della sentenza 77 del 2016 della Corte dei Conti». Si tratta della sentenza che, il 5 dicembre scorso, ha condannato l’allora dipendente, 63 anni, poi licenziato, per gli ammanchi al Cup: per i magistrati contabili (presidente Tommaso Miele, giudici Federico Pepe e Gerardo de Marco), non c’è dubbio che a intascarsi i soldi versati dai cittadini sia stato lui. E per i giudici non può essere andata diversamente perché il dipendente era «l’unico» ad avere la chiave. È stata la stessa Asl, durante il mandato dell’allora direttore generale Claudio D’Amario, a denunciare il caso alla procura contabile. Per la sentenza, che il dipendente volesse rubare i soldi lo dimostrano 4 circostanze: «Il fatto che fosse l’unico depositario delle chiavi dell’apparecchiatura; il fatto che egli si sia sottratto ripetutamente alle richieste di apertura della cassa, alla presenza dei superiori o di altro personale dell’ufficio (ciò tra le prime note di marzo 2015 e l’apertura finale, verbalizzata a dicembre 2015); il fatto che, frattanto, egli avesse proceduto in autonomia allo sblocco del macchinario, unitamente a un tecnico, già nel mese di maggio 2015, contravvenendo così alle indicazioni ricevute; il fatto che egli non abbia fornito alcuna logica spiegazione (né in sede istruttoria, né in sede processuale) della sparizione delle banconote».

Un danno, dice la Corte dei Conti, che non può non essere risarcito anche se, finora, in via Paolini non è arrivato neanche un euro: Mancini ha affidato l’incarico della difesa all’avvocato Andrea Modesti. Sarà lui, dopo un primo pignoramento andato a vuoto, a tentare di recuperare i soldi spariti. «Il convenuto», dice la sentenza, «era, all’epoca dei fatti, in rapporto di servizio con una pubblica amministrazione; era, per di più, soggetto incaricato del maneggio di denaro, qualificabile quindi come agente contabile. Il danno (l’ammanco) è evidente ed è costituito dalla mancanza, nella cassa quietanzatrice deputata all’incasso dei ticket sanitari, delle somme registrate come introitate e come tali rilevate nella contabilità».

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