Rigopiano, la Procura indaga sulla mancata evacuazione

Il mercoledì della slavina, con le strade ormai bloccate, per gli ospiti del resort non c’era più scampo. Sotto la lente dei pm i rischi sottovalutati il martedì precedente quando si potevano ancora salvare

PESCARA. Morti che camminavano. Nessuno di loro lo sapeva ma, quando si sono svegliati la mattina del 18 gennaio scorso, gli ospiti e i dipendenti dell’Hotel Rigopiano di Farindola non avevano quasi nessuna possibilità di salvarsi o di essere salvati. Si sposta indietro nel tempo la catena delle responsabilità per i 29 morti a causa della valanga che, poco prima delle 17, ha sbriciolato il resort. L’inchiesta per omicidio plurimo colposo e disastro colposo inizia a mettere i primi punti fermi. E uno di questi, forse il più importante di tutti, riporta al giorno prima della tragedia, il 17 gennaio: secondo gli inquirenti, è in quello che è successo quel martedì che vanno ricercate le responsabilità. Perché, il 17 gennaio, quelle persone, decedute poi tra tonnellate di neve e cumuli di macerie, avrebbero potuto lasciare l’albergo. Secondo l’accusa, l’hotel avrebbe dovuto essere evacuato e chiuso proprio da quel giorno: tutti fuori entro la serata del martedì.

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In base all’incrocio tra testimonianze e atti ufficiali con la catena di fatti accaduti il 18, gli inquirenti suppongono che il giorno della tragedia ci sarebbe stato davvero poco da fare a Rigopiano: se anche una turbina avesse cominciato a pulire la strada sommersa da due metri di neve alle 8 del mattino, probabilmente, ci avrebbe messo tra le 7 e le 10 ore per arrivare all’albergo. Ma quella turbina della Provincia, il 18, non c’era neanche: è rotta dal 6 gennaio scorso ed è ancora in officina in attesa di essere riparata. Era l’unica possibilità per le 29 vittime. Ecco perché l’inchiesta va indietro ai giorni precedenti: il 17 si sapeva che anche a Farindola avrebbe nevicato parecchio, come segnalato dai bollettini di allerta meteo tanto che poi, a monte dell’hotel, la neve ha toccato picchi di 5 metri; e si sapeva anche che stava crescendo il pericolo valanghe che il 17 era arrivato fino al grado di 4 su un massimo di 5, stesso valore 4 del giorno della slavina dalla forza di 120 mila tonnellate di neve, alberi e rocce. Un rischio doppio che è stato sottovalutato: dall’inchiesta, coordinata dal procuratore capo Cristina Tedeschini e dal pm Andrea Papalia, emerge che fino alla valanga la strada tra il bivio di località Mirri, a Farindola, e Rigopiano era considerata “solo” un problema di viabilità: 8 chilometri, da 500 metri di altitudine del paese fino ai 1.200 di Rigopiano, da tenere puliti solo per permettere agli ospiti di raggiungere l’albergo senza difficoltà.

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Nessuno si è posto un problema generico di ordine pubblico: gli inquirenti osservano che anche se era difficile prevedere una valanga di quella portata, tale da sbriciolare un edificio di 4 piani in cemento armato, si poteva almeno pensare a evitare altri possibili incidenti. Anche perché, nel 2015, l’albergo era rimasto isolato già una volta con ospiti e personale bloccati. È il problema generico di ordine pubblico che è passato in secondo piano. E questo, adesso, chiama in causa il Comune di Farindola, la Provincia di Pescara in quanto la competenza della strada Farindola-Rigopiano è proprio della Provincia, la Regione come ente di Protezione civile e la prefettura di Pescara in qualità di ente coordinatore della gestione dell’emergenza maltempo attraverso l’Unità di crisi.

Dopo le informative di carabinieri, forestale e squadra mobile e, una volta acquisite le perizie dei tre consulenti tecnici, il procuratore Tedeschini e il pm Papalia dovranno dividere la torta delle responsabilità e decidere chi ha fatto più danni degli altri. Perché in questa storia sembra che ognuno ci abbia messo del suo. Solo dopo questa valutazione, tra più di un mese, ci saranno i primi indagati.

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