Senza frigo e lavatrice, in Abruzzo si faceva così 

Il fuoco acceso anche in estate, prodotti di stagione, sale per conservare i cibi Cenere e sapone casalingo per il bucato. E le lenzuola si lavavano due volte l’anno

L'AQUILA. Il fuoco sempre acceso anche d'estate, perché se veniva a mancare il carbone o la fiammella mancava in casa la fonte principale di energia, fondamentale per cuocere le vivande e per fare quel poco di formaggio che il latte degli animali consentiva. Un po' come l'accendino o il fiammifero che non mancano mai nelle nostre tasche oggi. Altro che microonde: nelle cucine minimali delle case contadine da un lato c'era il camino per riscaldarsi, al suo fianco la “fornacella” per cuocere sughi, fagioli, patate, carne, una sorta di forno di oggi in cui «preparavi i cibi nelle pignatte di terracotta o nei testi di lamiera la sera prima, per trovarli ben cotti al mattino grazie a poche braci ardenti», racconta Danielina Tiberi, classe 1928, originaria di Piedi la Villa, piccola frazione del Comune di Tornimparte, a 20 chilometri dall'Aquila. Poi c'era «jiu cenerale», come veniva chiamato in dialetto tornimpartese il luogo ricavato a ridosso del camino e in cui si conservava la cenere, necessaria per pulire stoviglie e smacchiare il bucato. Guai, però, a mettere a cuocere le castagne nel fuoco: la buccia avrebbe macchiato per sempre lenzuola e abiti, che non potevano certo essere ricomprati facilmente.
Per salvarti la vita, mezzo secolo fa o giù di lì, nelle case dei paesetti bastava un carbone. E se mancava lo chiedevi in prestito al vicino: «Compa', mi presti un po' di fuoco?». Non solo il fuoco: di vitale importanza era avere in casa anche il sale e il lievito. Il sale per la conservazione degli alimenti e il lievito per fare pizze e pane. Non era concepibile per una famiglia restare senza pane, e se questo avveniva, partiva una spontanea corsa alla solidarietà. La comunità si attivava per aiutare la famiglia alla quale disgraziatamente le forme di pane erano andate a male per ripristinare la scorta. Sembrerebbe impossibile, oggi, vivere senza un frigorifero. E invece con un’alimentazione che assecondava i frutti della stagione, era un miracolo che si ripeteva ogni anno: in inverno, ad esempio, ci si aiutava con la frutta raccolta e preparata sott'aceto, come le pere “mazzute”, oppure le mele tagliate a spicchi e cotte nel forno domestico già riscaldato dalla cottura del pane, infine fatte essiccare sempre al forno in grandi testi di lamiera. Ed ecco che non servivano congelatori e nemmeno conservanti. Le case di una volta, quelle dei contadini, dei pastori, degli artigiani di 50, 60, 100 anni fa, non avevano acqua corrente, né saracinesche, né condizionatori o riscaldamento centralizzato. La lavastoviglie era qualcosa di fantascientifico.
La lavatrice? Nemmeno concepibile: esistevano i lavatoi pubblici e i fiumi, le donne ci andavano in compagnia chiacchierando, con grandi bacinelle, coppini per versare acqua e sapone (fatto in casa con grasso di maiale) braccia forti e gambe buone per coprire a volte le distanze. I fornelli per cucinare? E chi poteva immaginarli. Si dormiva tutti insieme per riscaldarsi (e per penuria di spazi) in quelle stanze uniche in cui si mescolava l'ambito della cottura con il dormitorio e lo spazio per l'igiene personale. «Oppure, nelle giornate più fredde d'inverno, si scendeva sin nelle stalle riscaldate dal tepore degli animali: cavalli, asini e mucche», aggiunge Danielina. Era quello il “metano” a costo zero. Nelle cantine di tufo si conservavano le derrate, quei frutti delle colture di stagione che venivano essiccati e poi cotti e preparati in mille modi per superare mesi e mesi prima di essere consumati. «La pulizia domestica era dettata dal rito lento della natura e delle stagioni», racconta Fernanda Franchetti con il suo immancabile sorriso, che di anni ne ha compiuti 90 il 6 giugno scorso. «Ad esempio le lenzuola venivano lavate due volte all'anno, quando le giornate lunghe e calde agevolavano il lavoro. C'era il bucato dei panni grandi e quello dei panni piccoli», ricorda Fernanda, «le grandi e pesanti lenzuola venivano tenute a mollo con il sapone fatto in casa che si scioglieva con il sole, all'interno di grandi tinozze al lavatoio pubblico. Dopo molte ore le lenzuola venivano stese sull'erba sotto al sole di mezzogiorno per smacchiarle e disinfettarle e ogni tanto venivano inumidite e girate sottosopra. Occorrevano due giorni per sbiancarle. Infine si tornava alla fonte (o al fiume) per risciacquarle».
©RIPRODUZIONE RISERVATA