Terremoto L'Aquila, processo Grandi Rischi I parenti delle vittime: "Avevamo ragione"

Vittorini commosso: nessuna vendetta ma soltanto un atto di giustizia. Fioravanti: mio padre è morto perché aveva fiducia nelle istituzioni
L’AQUILA. Le mani, una sulla spalla dell’altro, uniscono come una catena i parenti delle vittime che hanno voluto partecipare alla fine di questo primo atto del processo alla commissione Grandi rischi.
La ressa non permette di stare uno a fianco dell’altro, ma in fila, possono sentire addosso uno il respiro dell’altro tagliare l’aria pesante, in attesa della sentenza. Quando il giudice Marco Billi comincia a parlare, il respiro si fa più grosso e le mani premono più forte le spalle dei vicini. La catena non si rompe mai, neanche quando finalmente arriva il giudizio. Inatteso. Nel silenzio inizia a serpeggiare un bisbiglio: «Sei anni?». «Sei anni». Il respiro si trasforma in un sospiro. «Ha aumentato. Bravo. Sei anni». Le lacrime riempiono gli occhi di quei parenti «coraggiosi» che hanno voluto esserci. Poche frasi serpeggiano di orecchio in orecchio su quella catena umana, mentre il giudice scandisce uno a uno i nomi delle vittime per definirne il risarcimento: «Questo non me lo aspettavo oggi», «Non ci si può credere», «C’avevamo ragione noi», «Tutti. Tutti condannati». Le mani si sciolgono solo quando la voce del giudice si ferma. Ancora un sospiro. «Non è il momento delle dichiarazioni», dicono i parenti, prima di uscire dall’aula.
Un pomeriggio caldo d’inizio autunno li aspetta e li conforta, quanto forse gli abbracci di amici e parenti, che sono là fuori. Trattenere le lacrime si fa sempre più difficile. È per questo che c’è chi decide di allontanarsi dalla confusione e si appoggia a una ringhiera con le mani sulla testa e chi invece si lascia andare al pianto, senza far rumore. Qualche minuto ancora, prima di portare fuori quello che c’è dentro. A rompere il silenzio dei parenti delle vittime è per primo, Vincenzo Vittorini, il consigliere comunale che ha perso figlia e moglie la notte del 6 aprile 2009. Si ricompone, ma non riesce a trattenere la commozione mentre parla di «crescita del paese, attraverso l’assunzione di responsabilità delle cose fatte e non fatte». Una crescita che all’Aquila è costata 309 vite. «Il pm è stato molto preciso dicendo che altrove non ci sarebbero stati processi: ci si assume la responsabilità di quello che si fa», dice con l’amaro in bocca Vittorini, poi si guarda intorno: «Vorrei che questa fosse una cosa importante per tutta la città, ma la città è stata lontana dal processo. Questo fa male, ma spero che tutti capiscano che non si è fatto niente per vendetta, ma per cercare di cambiare e migliorare. Per evitare ad altri quello che noi qui abbiamo sofferto. Spero che da qui si possa iniziare un cammino diverso, per tutto il paese».
Ilaria Carosi, quella notte ha perso sua sorella, Claudia, un avvocato di 29 anni. Lei ha il pancione delle future mamme, ma non ha pensato neanche per un attimo a restare a casa. «Questa sentenza segna un passo importante rispetto al carico di responsabilità attribuite alle persone coinvolte, non solo per i sei anni di reclusione stabiliti, ma anche relativamente all’interdizione dai pubblici uffici. Questo processo è stato svolto con estrema professionalità da parte di tutti. Credo che sia una sentenza storica. Il dolore resta comunque tanto e domani per noi sarà esattamente come oggi. I nostri cari non ce li ridà più nessuno. Però forse un seme di speranza rispetto al futuro è stato piantato».
Non una vittoria, ma una sconfitta, per Aldo Scimia, che a Onna ha perso la madre tre anni e mezzo fa: «È una sconfitta per tutti. Lo Stato oggi ha dimostrato di esserci, finora però non c’è stato. A me sarebbe bastata anche la condanna di un solo giorno purché venisse sancito il principio. È una sconfitta della città: qui la città non c’è. Avremmo gradito che le istituzioni avessero portato 70mila persone qua fuori, non a piazza Duomo contro la restituzione dei contributi». «Speriamo che questo serva a insegnare qualcosa per il futuro, ad avere più attenzione e rispetto per le persone e il territorio. Questo principio avrebbe salvato noi e loro», dice Antonietta Centofanti che ha perso il nipote Davide sotto le macerie della Casa dello studente. «Non si è mai felici dell’infelicità altrui. Mi fa tristezza tutto questo». Guido Fioravanti ha gli occhi lucidi e la voce bassa, quando in fondo all’aula del tribunale, ascolta il pubblico ministero Fabio Picuti dire che, senza il suo racconto, questo processo forse non si sarebbe mai fatto. È il figlio di Claudio Fioravanti, avvocato e giudice tributario. «Un uomo delle istituzioni, un uomo che si fidava delle leggi e dello Stato». L’avvocato Fioravanti è tra le 309 vittime del sisma: è morto nella sua casa in via Campo di Fossa. Se però «non fosse stato rassicurato dalla Commissione», dice il figlio, «avrebbe lasciato casa e sarebbe andato sul camper, come facemmo quella notte quando io avevo 5 anni ed ero malato». La catena dei parenti resta lì fuori, a parlare, a stringersi, a guardarsi, sembra non voler abbandonare quel piazzale, davanti a cui è stato detto che in fondo, sì, «c’avevamo ragione noi».
Michela Corridore
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