Anzivino e le marcature molli: «Non c’è più l’abitudine al contatto fisico con la punta»

Ottobre 1983, al termine di Ascoli-Udinese il vastese Donato Anzivino con il brasiliano Zico
Intervista al 70enne vastese, difensore degli anni Ottanta e poi allenatore: «Mancano i corpo a corpo, certe cose vanno insegnate nei vivai»
VASTO. Non esistono più i difensori di un tempo in Italia. Un’affermazione che ormai è diventata un refrain. Il calcio del Belpaese era famoso nel mondo per saper difendere e far crescere fior di marcatori. Oggi non è più così, a tal punto che c’è una crisi di vocazione che si riversa anche sulle scelte della Nazionale: è bastato vedere lunedì scorso Israele-Italia 4-5 e come gli azzurri abbiano incassato gol per rilanciare il dibattito sulla crisi di talenti nel reparto difensivo e sul lavoro svolto nel settore giovanile. Tutto pane per i denti di Donato Anzivino, 70 anni, vastese, oggi allenatore nel vivaio della Virtus Vasto e un tempo terzino-marcatore anche in serie A. Ha affrontato fiori di campioni degli anni Ottanta, partendo da Maradona e Zico. Un marcatore che poi da allenatore è stato anche un integralista del 4-3-3, la persona ideale per affrontare un tema tecnico diventato centrale nel calcio italiano.
Anzivino, ha visto Israele-Italia?
«Sì, una partita rocambolesca. Tanti gol, forse troppi. Si è visto chiaramente che ci sono marcature velleitarie».
Come mai?
«A mio avviso, non c’è più l’accumulo di esperienza di contatti corporei che ti inducono a fare delle scelte in campo. Il marcatore deve “sentire” fisicamente l’attaccante. E questo avviene con atteggiamenti che vanno coltivati a partire dal settore giovanile».
È così che si marca l’avversario nel calcio di oggi?
«Ai miei tempi fare 18 gol in campionato era oro colato. Oggi si arriva a 30 gol facilmente. C’è qualcosa che non torna. Con l’avvento della zona gli attaccanti sono stati favoriti. Oggi i movimenti contro difesa a zona si conoscono e si allenano più facilmente».
Sempre meno difensori forti in Italia. Oggi tra i migliori in serie A c’è Bremer, un brasiliano…
«Io dico che oggi, a partire dall’Atalanta, si sta tornando all’uomo contro uomo. Gasperini ha tracciato una strada. Ripeto: credo manchi esperienza corporea, un qualcosa che si allena da bambini. Ci sono delle esperienze che il corpo racchiude in sé e poi le esprime con il tempo. Lo vedo anche con i ragazzini che alleno».
Ai suoi tempi?
«Intanto, nessuno ti spiegava niente. Arrivavi in serie A, ma ci giungevi con quello che avevi dentro, con le esperienze accumulate sin da ragazzino. C’era la marcatura a uomo, dovevi annientare l’avversario; si seguiva l’attaccante dappertutto, anche quando andava al bagno come si usa dire oggi».
Quali sono i trucchi del mestiere che spesso utilizzava?
«Il corpo decide. Il trucco sta nella ripetizione continua di certi movimenti. C’era contatto con il corpo con l’avversario. Avete visto Retegui in Nazionale l’altra sera con Israele? Quel contatto con l’avversario alle spalle per l’assist a Politano in gol gliel’ha insegnato Gasperini. Per non parlare di Conte con Lukaku, oggi il belga non perde più pallone. Anzi…».
C’è una foto dell’ottobre 1983 in cui c’è lei con Zico alla fine di un Ascoli-Udinese, in serie A, ricorda?
«Sì, quella foto la trovo ovunque. Stavamo lasciando il campo e lui mi stava facendo i complimenti per la partita. L’avevo marcato bene senza picchiarlo. Gli ho chiesto la maglia, ma lui l’aveva già promessa a Juary, brasiliano come lui. Pazienza...».
Anni Settanta, dalla Pro Vasto all’Ascoli, come?
«Ad onor del vero, dovevo andare a Bologna l’anno prima. Mi venivano a vedere diversi osservatori. Andai anche a fare un provino in Primavera a Bologna, ricordo che c’era Pecci. Poi, però, Pesaola mi bocciò con una relazione. Venne a vedere una gara in cui giocai male e niente Bologna. E poi andai ad Ascoli, con la Pro Vasto andammo lì per un’amichevole e mi presero».
In cambio di?
«Mi sembra 30 milioni di vecchie lire più il cartellino dell’attaccante Cappotti».
Vasto, Ascoli, Campobasso e Termoli: appena quattro squadre in carriera da calciatore.
«In realtà, ho iniziato dalla Terza categoria, va detto. Era il periodo del vincolo, decideva la società. Se non c’era accordo, restavi lì. Mica come oggi... Dovevo andare a Torino a un certo punto, ma la dirigenza granata non si mise d’accordo con il compianto Costantino Rozzi e niente maglia granata».
Rozzi?
«Un secondo padre per me. Uno che era molto bravo a inculcarti la mentalità necessaria per conquistare la salvezza in serie A».
Ha marcato tanti campioni degli anni Ottanta, il più forte?
«Giordano era fortissimo, Laudrup, Bettega, Mancini. Bettega era grosso, difficile da anticipare, mi dava grossi grattacapi. Erano duelli tosti. Anche con Bagni bei duelli».
1978, Ascoli promosso in serie A.
«La squadra dei record, con Renna che poi ci guidò alla salvezza in A».
Appena un gol in serie A.
«Due, prego, di cui uno in Coppa Italia. In campionato all’Atalanta e al Como in Coppa. In compenso ho fatto diversi assist».
Perché ride?
«Perché ripenso al gol in Coppa, ero sulla fascia, crossai e mi rigirai per riprendere la posizione. Ma i compagni mi vengono ad abbracciare. Non mi ero reso conto che il portiere aveva fatto una papera e che il pallone era entrato in rete».
Oggi che cosa l’appassiona?
«Mi piace molto vedere la Premier League. Si va a cento all’ora, c’è agonismo. Ci si crede fino all’ultimo. Non c’è alcuna partita scontata».
Che cosa non le piace?
«Mi fa male vedere i ragazzi esasperati dai genitori che pensano di avere il campioncino in casa. Manca il divertimento. Oggi se il ragazzo sbaglia una partita è un dramma, non è possibile. Io sono arrivato in A perché mi divertivo a giocare, non perché avevo dietro gente che mi pressava».
Rimpianti per non essere nato qualche decennio dopo?
«Ogni tanto ci penso. Però, ognuno ha il suo. E ricordate che la vita è anche sofferenza».
Oggi fa settore giovanile, perché?
«Sono anche nonno e devo pensare alla famiglia e ai nipoti».
È stato uno dei primi tra i dilettanti a marchiare le sue squadre con un 4-3-3 puro e spregiudicato. Poi?
«Non mi fossilizzo più sui moduli. Vedo le potenzialità dei singoli in funzione della squadra. E comunque Zeman è stato ed è fonte di ispirazione per me e per tanti».
Un marcatore in campo, un integralista da allenatore, come mai?
«A Campobasso avevamo un tecnico svedese, Tord Grip, il mentore di Eriksson. Facevamo la zona e a me veniva naturale. Lì c’è stata la folgorazione. Con Grip andavo in campo con nessuna tensione. Mi divertivo».
Qual è stato il bivio della sua carriera in panchina?
«A Nocera Inferiore, in C. Potevo restare, ma non era il caso. Erano accadute cose che non mi era piaciute».
Oggi come si rapporta con i giovani?
«Il rapporto è cambiato nel tempo. Devo cercare io le chiavi per parlare con loro, oggi hanno un vuoto dentro e se li centri mentalmente li riempi di contenuti. Al di là del calcio».
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