Tre generazioni di Pomilio con la maglia dell’Italia

Dal nonno Vittorio ai nipoti Luca e Simone, passando per mamma Malì

PESCARA. Un azzurro tira l'altro, va avanti così da tre generazioni ed è una storia tutta abruzzese, unica oltretutto nel mondo del basket. Si parte da Vittorio Pomilio, campione sotto canestro negli anni 50 e poi per lungo tempo punto di riferimento della pallacanestro in riva all'Adriatico, si passa per Malì che di questo sport al femminile è stata protagonista e grande interprete, si arriva, col supporto di Daniele Fontecchio (pure lui azzurro e campione, ma di atletica leggera), a Luca e Simone, tutti e due in odore di Nazionale maggiore sotto i tabelloni. Un'autentica fabbrica di talenti, quasi un passaggio di testimone senza tempo e senza età che magari non è ancora arrivato all'ultimo cambio, un terzo tempo di gruppo con una percentuale di realizzazione da cento per cento.

Il primo a far centro in questa gara infinita fu appunto nonno Vittorio che alla pallacanestro oltretutto ci arrivò tardi e quasi per caso, riuscendo però a bruciare le tappe: «Da ragazzo facevo canottaggio», racconta l'ingegnere, oggi primo tifoso dei suoi nipoti in carriera, «quando andai a studiare a Roma mi allenavo al Circolo Aniene con i Corazzieri. Quell'estate avevo 18 anni, Carlo e Mario Briolini, fratelli di Giuliana, la ragazza che sarebbe diventata mia moglie, mi convinsero ad andare con loro a giocare a pallacanestro. Tre anni dopo ero con Ferrero alla Stella Azzurra. Gli avevo già dato la parola quando i dirigenti della MotoMorini mi offrirono una barca di soldi per trasferirmi a Bologna dopo avermi visto al torneo di Roseto; la serie A la scoprii comunque a Roma e, in fretta, arrivò anche la prima convocazione in Nazionale».

Esordio a Barcellona, poi altre 18 presenze fino all'aprile del 1960 e al grande rimpianto della sua vita da atleta: «C'erano le Olimpiadi alle porte, l'allenatore Paratore mi aveva già inserito nella lista, ma intanto mi ero laureato e aveva cominciato a lavorare con un'impresa di costruzioni. Chiesi un permesso per andare in tournée con la Nazionale mi dissero invece che dovevo andare a Bomba dove era in costruzione la diga. Così, a 27 anni, rinunciai alle Olimpiadi e alla maglia azzurra e diedi pure l'addio alla pallacanestro. L'impresa Costanzi mi dava 57 mila lire al mese, non me la sentii di accettare l'offerta dell'Ignis Varese: 700 mila lire per giocare e un posto garantito come ingegnere…».

Non era finita però, il bello della nostra storia, anzi, doveva ancora arrivare: «Nel 65 Franco Zuccaro e Mario Bernardi mi convinsero a tornare a giocare nonostante avessi più di un acciacco, due anni dopo ero in America quando da Pescara arrivarono le telefonate degli amici: devi tornare, mi dissero, a Foligno c'è lo spareggio per la promozione in serie C. Detto e fatto. Vincemmo e nel 70 al Florida ci scappò anche il bis che valeva la serie B. Giocai fino al 73, Malì veniva a tutte le partite e intanto faceva minibasket alla palestra di via Pindaro che assieme a Briosi avevamo messo su dove ora c'è la Fabbrica».

Il seme cominciava a dare i suoi frutti. Malì, stessa determinazione del padre, spirito di sacrificio, grande volontà e mezzi notevoli arriva in alto, anzi altissimo. A Vicenza vince tutto, con la Nazionale arriva a 120 presenze, il basket ce l'ha nel sangue e nella testa, quando lascia l'attività agonistica mette su una sua società assieme a Schivo, sua ex compagna di squadra alla Pitagora e Alessio Gobbi, con Daniele Fontecchio il Vivavilla cresce ancor più ma soprattutto diventa la prima palestra dei loro due ragazzi, Luca e Simone. «Sono cresciuti facendo e vivendo sport ogni giorno», spiega Daniele, «hanno scoperto la loro passione divertendosi, senza imposizioni o pressioni eccessive da parte di genitori che, per i loro trascorsi, potevano anche essere ingombranti. Luca ha cominciato con l'atletica, ha vinto anche un campionato cadetti nei 300 ostacoli, ma poi il suo percorso l'ha continuato nel basket, Simone ha mostrato subito invece una predisposizione per la pallacanestro». «E' vero», aggiunge Malì, «il primo faceva indifferentemente le due attività, l'altro fin da bambino aveva sempre una palla tra le mani, il suo gioco preferito era tirare e centrare un piccolo canestro che aveva in camera. Caratteri diversi, forse Luca assomiglia più a me, a mio padre e allo stesso Daniele; sa da sempre che tutto quello che ottieni te lo devi sudare col lavoro e il sacrificio, sta scoprendo, suo malgrado, la forza che serve per reagire di fronte ad avversità e infortuni. Simone ha più talento, ha affinato la sua sensibilità nel gioco passando ore e ore sul campo a tirare, a schiacciare; credo che ancora oggi che sta iniziando la sua carriera da professionista si diverta con un gioco che lo appassiona». «E' vero», conferma Daniele, «Simone ha già trovato probabilmente il ruolo giusto, quello di guardia-ala che gli dà prospettive affidabili, deve migliorare in difesa che è poi la forza di Luca, giocatore che ha grande determinazione e motivazioni ma che non ha avuto ancora la fortuna di trovare lo spazio giusto per esprimere al massimo le sue qualità. A Ozzano e a Reggio Calabria ha giocato benissimo e ha fatto la differenza, per crescere e maturare deve avere l'occasione di misurarsi ai massimi livelli».

Il brutto infortunio rimediato in Cina durante la tournée con la Nazionale sperimentale (menisco e crociato anteriore) ha messo per il momento il maggiore dei Fontecchio fuori dai giochi, ma nonno Vittorio, primo tifoso dei suoi nipoti, è convinto che si riprenderà presto per giocarsi al meglio una nuova chance: «Sperando», dice, «che venga finalmente utilizzato nel ruolo giusto. Non è stata sfruttata finora la sua grande velocità, deve giocare fuori e non sotto canestro per dare il meglio di sé. Nell'attesa mi godo Simone che tra un paio di settimane sarà a Lubiana con i migliori under 18 d'Europa. Malì dice che per i miei nipoti sono diventato una specie di ultrà e forse ha ragione, ma, credetemi, è una grande soddisfazione vederli in campo e soprattutto sapere che sono due ragazzi in gamba che stanno percorrendo la strada che sognavano con passione e con lo spirito giusto. Perché lo sport è bello ma richiede sacrifici e la testa a posto, sapendo che, come nella vita, nessuno ti regala nulla ma ogni cosa te la devi conquistare senza cercare scorciatoie». Va avanti così da tre generazioni, è proprio una bella storia.

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