L’Abruzzo di Franco Pomilio: «Scommettiamo sugli alberi: più natura e meno dialetto, non chiudiamoci in noi stessi»

Nell’intervista del nostro direttore il presidente della Pomilio Blumm spiega la sua ricetta per una regione al passo: «Dopo Gabriele D’Annunzio qui nessuno ha costruito un’identità complessa»
Dottor Pomilio, ha letto della polemica sul “dialetto semplificato” e sul modo in cui l’Abruzzo deve comunicarsi al mondo? Ormai siamo alla quinta puntata.
«Sarò sincero. All’inizio no, poi sì, così ho recuperato le puntate precedenti, e ho trovato più di un elemento di interesse visto che di mestiere faccio il comunicatore istituzionale. Però...»
Però cosa?
«Confesso che non mi sono riconosciuto in nessuna delle due posizioni che fino ad ora si contendono la scena. Se parlo sinceramente, deludo entrambi i fronti».
Addirittura? Facciamolo, allora.
«Sicuramente non posso riconoscermi nella posizione dei nostalgici dei quindici dialetti abruzzesi da preservare come se fossero delle reliquie. Presto capirà perché».
E poi?
«Devo dire che non mi ritrovo pienamente neanche nella provocazione di Melozzi».
Perché?
«Dice delle cose interessanti, prova a innovare, ma io sono molto più drastico di lui».
Ovvero?
«L’Abruzzo non deve proprio più comunicarsi al mondo con il dialetto, né “filologico” né “semplificato”!».
Perché?
«Perché anche io voglio fare una piccola provocazione: secondo lei quand’è l’ultima volta che questa regione si è raccontata al mondo in maniera compiuta, con una identità coerente e interessante fuori dai nostri confini?»
Ai tempi di Remo Gaspari?
«(Ride). Nooo! Molto prima».
Con la Brigata Maiella?
«(Ride di gusto). Nooo! quelle sono state identità importanti, ma esclusivamente politiche. Io qui parlo di cultura, di idee...».
Mi arrendo, mi dica lei.
«L’ultima volta che l’Abruzzo ha avuto una idea compiuta di sé stesso è stato con Gabriele D’Annunzio! »
Ma dobbiamo tornare al 1920!
«Eravamo più moderni di oggi».
Il dialogo con Franco Pomilio, guida carismatica della Pomilio Blumm, è un cortocircuito felice nella galleria di pareri che stiamo raccogliendo in questi giorni, grazie alla salvifica provocazione di Enrico Melozzi sulla necessità dell’Abruzzo di dotarsi di una nuova narrazione dell’identità regionale. Anche il dialetto, anche il saltarello - dice Melozzi - devono avere una forma semplificata se vogliono varcare i confini abruzzesi. Pomilio guida una azienda perfetta per essere riassunta in un apologo: sede a Pescara, proprio in riva al mare, al porto turistico. Ma lavori e gare in tutto il mondo, con clienti del calibro della Comunità europea, per cui l’agenzia cura l’immagine istituzionale. Una delle rare eccezioni regionali - tra i clienti - è la De Cecco (è della Pomilio lo slogan di Jannik Sinner: “Io e De Cecco siamo fatti della stessa pasta”). La famiglia Pomilio nasce da una lunga tradizione industriale (far volare elicotteri e aerei) da cui nasce un’agenzia di comunicazione che oggi - tra gli altri - serve la presidenza del Consiglio, la Marina Militare, l’Istat, Expo 2015... I Pomilio hanno fatto volare aerei ed elicotteri, e adesso? Pomilio sorride: «Costruiamo narrazioni».
La sua provocazione, dottor Pomilio è doppia: no al dialetto come biglietto da visita, e no al racconto agro-pastorale come àncora.
«Guardi, è semplice: dopo Gabriele D’Annunzio nessuno si è più preoccupato di costruire una identità complessa che non fosse puramente contemplativa».
Lei lo dice perché ha un confitto di interessi e un legame famigliare con il Vate.
«Lo dico perché D’Annunzio è stato letterario, visionario, maestro di stile, ma pieno di contenuto, poeta delle campagne, ma anche della modernità, ideatore di Pescara, come capitale e città di fondazione. Mi dice chi altri ha potuto produrre anche solo una minima parte di questo potente corredo? Viviamo ancora di rendita».
Parliamo del suo conflitto di interessi.
«Ah ah ah… confesso. Da bambino ho passato giorni della mia infanzia a scrivere sul retro delle lettere di D’Annunzio a mio nonno».
Come come?
«Sì, all’Aurum ne avevamo stanze piene. E siccome un ramo dell’azienda di famiglia era le cartiere, mio nonno amava più la carta che le scritture. E mi invitava a riciclare».
Quindi lei ha distrutto un patrimonio straordinario di lettere autografe?
«Se lo vogliamo dire in questo modo enfatico, è tecnicamente vero, ma imparavo anche ad immaginare...».
L’Aurum - come liquore - fu il primo prodotto oggetto di comunicazione della pionieristica agenzia di famiglia.
«Ma anche la Mentuccia di San Silvestro. Vogliamo dire che furono grandi successi? Le lettere di D’Annunzio nel retro della fabbrica erano a pacchi. E io, come le ho detto, le tiravo giù dagli scaffali, ci disegnavo o ci scrivevo sopra. E dietro c’erano i dipinti impressionisti di Michetti: “polaroid” culturali».
Non diciamolo a nessuno. Dove sono ora?
«Non ne ho idea. Tutto perduto, immagino».
E lei con questa storia alle spalle dice che non crede più al dialetto?
«Credo a mia moglie Serena, che con uno sforzo utilissimo di semplificazione dice: “Quello che l’Abruzzo può vendere al mondo sono i suoi alberi”».
Perché non il dialetto?
«Perché il dialetto lo hanno anche la Puglia o la Calabria! Il resto no!».
E quindi la fauna, le biodiversità: voi come simbolo aziendale avete un rinoceronte. E l’orso è la bandiera dell’identità regionale.
«Le racconto un aneddoto. In uno delle poche campagne che abbiano fatto in Abruzzo inventammo uno slogan che io immaginavo molto simpatico e accattivante per questa regione».
Quale?
«“Non fare l’Orso”».
Divertente e intrigante, in effetti.
«Scherza? Fummo quasi linciati. Lettere, proteste… Ci coprirono con gli insulti più disparati, il cui filo conduttore comune era: non vi permettete di scherzare con gli orsi!»
Adesso rido io.
«Io, scherzando, dico sempre che noi non siamo abruzzesi, ma “Nativi d’Abruzzo”».
Come i nativi americani, gli indiani d’America?
«Esatto: perché ci piace crogiolarci nell’ideologia del ghetto chiuso in cui anche se il mondo ci ignora noi ci immaginiamo protetti e sicuri».
E invece?
«Non siamo protetti, né sicuri. E non dobbiamo mai chiuderci in un ghetto. Abbiamo cose straordinarie da vendere al mondo che a volte sono il “nostro niente”... il dialetto e i balli li hanno tutti. Vai in Calabria e ne trovi di stupendi. Ma abbiamo cose che nessuno ha, e di cui non abbiamo consapevolezza».
Ad esempio?
«Il clima. Noi lavoriamo in tutto il mondo ma restiamo testardamente, e orgogliosamente a Pescara, dove siamo nati».
Che c’entra il clima?
«Io dal mio ufficio avrei potuto uscire, oggi, come tutti, e fare un bagno. Anche ai primi di ottobre».
E quindi?
«Il turista, il viaggiatore, non verrà in questa regione per scoprire i quindici dialetti che rendono orgogliosi tutti. Io ci vengo se so che qui c’è un valore - il clima - che sarà il petrolio di domani».
Ci sono i migranti climatici che fuggono da zone che si stanno desertificando.
«E questa è la forma traumatica. Perché non prepararsi ad accogliere turisti, anche di livello, che cercano un clima temperato? Boschi e ossigeno. Con una idea del territorio che non sia pura conservazione».
Mi faccia un altro esempio.
«L’albergo diffuso! Con il nostro spopolamento e i nostri spazi abbiamo gli scenari per costruirne di meravigliosi, dentro zone ambientalmente uniche: pensi solo ai borghi più antichi, a Scanno: un Buthan asiatico a due ore da Roma».
Mi indichi un modello.
«Daniele Kihlgren ha costruito un universo, partendo da questa intuizione. Ma noi abbiamo ancora le vecchie strutture ricettive. Siamo albergatori “del qualunque” e replicanti di standard. Posso dirle perché è importante?».
Certo.
«L’albergo di cui stiamo parlando ora non è solo una attività commerciale: è il paradigma di come accogli i visitatori nella tua terra».
Esempio?
«Se io voglio portare a Pescara i clienti della mia agenzia, non ho un albergo alternativo, buio totale. Non c’è un nuovo modello accattivante, ma nemmeno un albergo mainstream, una grande catena».
Perché?
«Perché invece di pensare a fare qualcosa di unico, partendo dall’identità dei territori, sa cosa offrono gli operatori, di ogni livello, che ci sono?».
Me lo dica.
«Fanno sforzi per dare, magari peggio, quello che trovo dappertutto».
Quindi niente valli, niente dialetto, niente folklore, ma nemmeno quello-che-trovi-ovunque?
«Sì».
Facciamo un esercizio-lampo, torniamo al manifesto che vi creò tutti quei provoloni con quello slogan spiazzante.
«Ci sono».
Metta che facciano come dice lei e ci raffiguriamo una meravigliosa foto di un orso marsicano, immerso nei tre parchi verdi e unici di questa regione. Quanto serve per trovare un buono slogan?
«Premetto che i copy migliori sono i nostri lupi, la nostra fauna. Ma noi lo abbiamo già costruito facendo l’intervista: “Ci trovi solo qui!”».