Porta l’arte nelle scuole e promuove talenti da Pescara a New York

Marco Antonini è a 39 anni direttore della galleria NatureArt: "Arrivai con una valigia di cartone, ora la città mi vizia"

NEW YORK. «Solo a New York accade di vedere un’installazione multimilionaria con i piccioni addestrati per anni a volare in stormo». Seduto di fronte Roberta’s, la rinomata pizzeria a est di Williamsburg a Brooklyn, Marco Antonini racconta perché New York vizia un gallerista, perché solo a New York può accadere di vedere un’installazione notturna con i piccioni viaggiatori e perché i ragazzini americani non hanno la minima idea di dove alberghi l’arte. Marco Antonini, pescarese di 39 anni, è il curatore e il direttore della galleria NurtureArt a Brooklyn che promuove artisti emergenti e porta l’arte nelle scuole. «Sono arrivato con la valigia di cartone nel 2003», inizia Antonini che a New York ha fatto il grafico, quindi l’educatore al Guggenheim, il professore di storia dell’arte a Jersey City prima di mandare un curriculum ed essere assunto nel 2005 come curatore e poi promosso a direttore due anni dopo.

Antonini, perché è arrivato a New York?

«Avevo conosciuto in Italia i miei cugini del New Jersey e mi dissero: perché non vieni a New York? Sono partito nel 2003, praticamente all’avventura, con la valigia di cartone. In Italia avevo studiato Conservazione dei Beni culturali, ma il mondo accademico non mi interessava e dopo la laurea presi un diploma da grafico perché era più pratico e mi pagavano. Così, i primi due anni a New York ho fatto il grafico».

Prima casa a New York?

«A Park Slope perché mi piaceva Paul Auster e avevo letto che viveva lì. Park Slope ha un bellissimo parco, Prospect Park, ed è un quartiere molto desiderato per le sua tipiche case brownstone, quelle a tre piani con finestre alte e originariamente monofamiliari. La realtà è che mi sono trovato subito bene a New York e, a un certo punto, ho iniziato a girare per le gallerie».

E che cosa è accaduto?

«Mi presero a fare un internship in una galleria di Brooklyn e decisi che volevo lavorare in quel mondo. Iniziai a scrivere per le riviste italiane di arte, a incontrare artisti, a iniziare a proporre mostre, a fare il curatore indipendente».

Come si organizza una mostra a New York?

«Posso dire che è quasi facilissimo perché gli artisti sono quasi tutti qui e c’è la possibilità di incontrarli. Gli americani sono generosi, anche se sono molto impegnati trovano sempre un minuto da dedicarti. L’altro aspetto è che anche se sei un curatore alle prime armi e proponi di fare una mostra a New York tutti ti dicono di sì, tutti vogliono esporre a New York. Così, iniziai a portare le mie idee nelle gallerie. All’inizio tutti ti dicono di no, ma a un tratto qualcuno di dice di sì».

Il primo sì?

«Una mostra a Soho, una collettiva di artisti emergenti. Mi sono sempre occupato di videoarte, performance, questo è l’approcio interdisciplinare da avere quando sei indipendente. Alcuni artisti che ho seguito sono diventati famosi altri si sono persi. La dimensione che mi piace di più è quella del talent scout».

Da curatore indipendente a direttore di una galleria a Brooklyn: che cosa è accaduto?

«Ho frequentato un master in arte contemporanea e riuscii ad ottenere una borsa di studio per coprirmi tutte le spese. Nel frattempo, ho fatto la guida al Guggheneim e fare l’educatore è un lavoro ragguardevole negli Stati Uniti. Soprattutto, poi, farlo al Guggheneim. Nel 2010, mandai il curriculum a NurtureArt e mi assunsero come curatore. Due anni dopo, sono stato promosso a direttore».

Che cos’è NurtureArt?

«E’ una organizzazione non-profit che ha la scopo di dare visibilità ad artisti emergenti. Una parte del programma viene curato da me perché dirigo tutto lo spazio, mi occupo del budget, di trovare i soldi e posso dire che a distanza di tre anni il budget è triplicato. Accanto alle mostre, lavoriamo anche a una programma di educazione a cui partecipano artisti, professori delle scuole pubbliche che non hanno soldi per programmi di arte. Invitiamo gli artisti a lavorare con gli studenti o gli studenti a proporre mostre».

Qual è il rapporto con l’arte degli studenti americani?

«Nelle scuole pubbliche, quelle che possono permettersi il 90% delle famiglie, l’arte non c’è. E’ una cosa molto grave, chiaramente, e posso dirlo con certezza perché ho insegnato Storia dell’arte a Jersey City. Il classico corso da “Masaccio a oggi” e i ragazzi non sanno nulla di arte. Se mostri una crocifissione non ne conoscono l’iconografia, e non solo perché alcuni non sono cristiani, ma perché non l’hanno mai vista a livello iconografico. Il problema è che se una famiglia ha i soldi può iscrivere il figlio in una scuola privata che la maggior parte della gente non può permettersi”. Così, si crea un divario di classe ed etnico incredibile».

Qual è la mostra allestita adesso a NurtureArt?

«Una diversa dal solito, perché è proprio una mostra curata dagli studenti. Fa parte del nostro progetto di educazione in cui gli studenti, sotto una guida, selezionano gli artisti, li studiano, li propongono».

E’ un’esperienza che sarebbe replicabile in Italia?

«Sono due sistemi diversi: a New York i finanziamenti sono privati mentre in Europa i finanziamenti sono pubblici. Diciamo che negli Stati Uniti l’operatore diventa anche imprenditore, la bilancia è spostata e bisogna trovare i soldi. Tra i tanti modi, c’è quello di organizzare galà e ogni anno con NurtureArt ne organizziamo uno dove il biglietto costa salato e dove le persone vengono per supportare l’arte. Questo ti vizia un po’ perché solo a New York si riesce a organizzare un party da 500 persone con biglietto a 300 dollari e fare il tutto esaurito. L’Italia ha meno possibilità, tutto qui, e io sono andato via perché ho avuto la sensazione che non ce l’avrei mai fatta anche con i sistemi poco trasparenti che abbiano noi».

Come guarda da New York alle difficoltà italiane (abruzzesi) nell’arte, alle mostre che non hanno soldi, a Cesare Manzo che ha chiuso la sua galleria dopo tanti anni?

«C’è una cosa che vorrei dire di Cesare Manzo e di Fuori Uso che quest’anno verrà curato anche da Simone Ciglia che è molto bravo. Ho una grande riconoscenza per Fuori Uso e per quello che ha fatto Manzo perché, per quanto in maniera picaresca, una generazione come la mia non avrebbe mai potuto vedere l’arte contemporanea a quel livello senza Manzo e Fuori Uso. Pescara è una città senza grande storia e può essere un vantaggio. Molte altre città hanno un fardello culturale da mantenere che sottrae molte risorse, mentre Pescara no e dovrebbe investire in questo, sfruttare chi ha una conoscenza dell’arte contemporanea. Vistamare di Benedetta Spalletti è una galleria pazzesca, Pollinaria di Gaetano Carboni è una residenza che attrae artisti da tutto il mondo. Bisogna capitalizzare queste esperienze».

La cosa più assurda che ha visto a New York?

«Dico l’ultima cosa che ho visto, l’installazione Fly by night di Duke Riley. E’ un’installazione pubblica di un artista che ha addestrato i piccioni viaggiatori insegnandogli a volare in stormo di notte. Ecco, questa è una roba che può accadere solo a New York».

Qual è la differenza tra le gallerie di Brooklyn a Manhattan?

«Quando sono arrivato nel 2003 c’era una divisione totale mentre adesso molte gallerie si sono trasferite a Brooklyn. A Manhattan restano i grandi musei e le grandi gallerie di Chelsea uniche al mondo. Il problema è che, poi, a New York devi ritagliarti il tuo spazio. Forse la gente si aspetta che si possa vivere tutta la città, ma non è così. I miei amici, la mia casa, il mio lavoro sono a Brooklyn. Manhattan è bellissima, ma ti esaurisce».

Nella scena dell’arte, qual è l’unicità di lavorare a New York?

«La quantità: il basso e l’alto, la scena underground e le mostre da decine di milioni, le cose fenomenali, ma anche le cagate pazzesche».

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