Gerusalemme: le tensioni del Jerusalem Day nella città divisa

Il racconto del Jerusalem Day tramite le testimonianze di Yaser Khatib e il giornalista israeliano Nir Hassom: la violenza e il razzismo della marcia, le aggressioni ai giornalisti e l’Europa che si gira per non guardare
«Bil harakeh baraka!» usava dire zio Bilal, sorridendomi, mentre assieme scendevamo veloci le gradinate a semicerchio che anticipano il più importante dei punti d’ingresso della Città Vecchia di Gerusalemme: la Porta di Damasco. «Bil harakeh baraka» può essere tradotto così: «nel movimento vi è benedizione»: il significato letterale è un invito al movimento fisico, ma in realtà è più spesso inteso in senso figurato con il significato di “otterrai qualcosa se ti dai da fare” e “la fortuna ti assiste se cogli il momento”. La Porta di Damasco (che in arabo si chiama “Bab Al Amoud”, ossia “Porta della Colonna”, in riferimento a una colonna che era lì presente in epoca romana) rappresenta appieno questo detto: nodo di caotiche arterie dove arrivano i mezzi pubblici da ogni parte della città, è uno dei più importanti punti d’incontro dei palestinesi di Gerusalemme: su quelle gradinate a semicerchio che circondano la porta chiacchierano, leggono, bevono il caffè, per poi riprendere il loro frenetico ritmo; “Bil harakeh baraka!” mi diceva mio zio quando, come al solito, eravamo in ritardo per la preghiera del venerdì!
Bab Al Amoud è anche, spesso, teatro di aspre tensioni e scontri, come accade durante il Jerusalem Day: ogni anno centinaia di giovani (spesso giovanissimi) israeliani celebrano la conquista e l’occupazione della parte orientale della città avvenuta nel 1967 aggirandosi per il quartiere arabo della Città Vecchia in maniera estremamente provocatoria e violenta, partendo appunto dalla porta più importante e simbolica per i palestinesi. Ho chiesto cosa è successo qualche giorno fa a Nir Hasson, esperto giornalista israeliano che scrive per il quotidiano Haaretz, e che, da 17 anni, copre gli eventi del Jerusalem Day. «Ricordo che una volta molti negozi arabi rimasero aperti per tutta la giornata, tanti anni fa. Questo non succede più: da una decina d’anni questa marcia di ragazzini estremisti è sempre più violenta; l’anno scorso è stato sicuramente il peggiore». Nir Hasson pensa a due momenti fondamentali quando gli ho chiesto com’è cambiata negli anni la marcia del Jerusalem Day: il primo è l’elezione di Naftali Bennett nel 2021: per la destra israeliana risultò intollerabile che una coalizione di governo includesse, per la prima volta nella storia del Paese, un partito arabo indipendente; il secondo è stato lo scorso anno, in seguito agli eventi del 7 ottobre: «Nessuno va più a scuola perchè non ci sono più bambini», ha sentito dire più volte qualche giorno fa.
La giornata più significativa dell’anno per il sionismo religioso, celebrata il 28esimo giorno del mese di Iyar del calendario ebraico, e che non molti sanno essere promossa con un budget di 700mila shekel dal comune di Gerusalemme, quest’anno è cominciata da Al Aqsa, mi dice Hasson. Infrangendo lo Status Quo della Spianata, il ministro della Sicurezza Ben-Gvir ha reso sempre più frequenti, e tollerate, provocazioni di questo tipo, protette dall’intervento delle forze di polizia. «Sono rimasti lì fino alla chiusura di Al Aqsa, alle 11. Poi si sono spostati nel quartiere musulmano: a quell’ora i palestinesi del quartiere erano in giro e diversi negozi erano ancora aperti perché la marcia sarebbe dovuta iniziare alle 16». E qui sono iniziati i problemi: sputano, rompono quello che possono, rubano quello che vogliono, e cantano vivacemente assieme. «Per fortuna quest’anno la polizia ha fatto il suo lavoro un po’ meglio e quindi i danni sono stati limitati, e questa è stata la differenza più importante con l’anno scorso» osserva Hasson. «Una volta tutto questo accadeva solo su Al Wad, la più antica e importante arteria che conduce ad Al Aqsa. Oggi la violenza che vediamo è ampiamente estesa a tutto il quartiere musulmano. Neppure gli attivisti israeliani di sinistra come Standing Together, che cercano di proteggere gli abitanti del quartiere, sono esenti dagli attacchi». Né i giornalisti: Hasson ricorda quel che è accaduto il 5 giugno 2024, quando è stato aggredito assieme al collega palestinese Saif Kawasmi da una ventina di giovanissimi estremisti: «Avranno avuto 15, 16 anni. Non era ancora cominciata la marcia, e mi guardavano mentre usavo il mio cellulare, non volevano che facessi foto. Ho provato a calmarli, a spiegare loro che stavo solo facendo il mio lavoro, ma è stato inutile. Mi hanno spinto e hanno iniziato a picchiarci per circa mezzo minuto, finché non è intervenuto il Magav, l’unità speciale della polizia israeliana nella Città Vecchia preposta al mantenimento dell’ordine pubblico». Quello che più colpisce Hasson è il ritrovo alla Porta di Damasco a fine giornata: «Quei ragazzini sono letteralmente in estasi. Tra i diversi gruppi estremisti che arrivano a Bab Al Amoud negli ultimi anni il maggiore responsabile dei pogrom è No'ar HaGva'ot (Hilltop Youth): sono i giovani coloni Hardal che in Cisgiordania creano gli avamposti per gli insediamenti illegali. Inneggiano alla violenza in uno dei punti più delicati della città con una naturalezza inquietante».
Ma attenzione: documentare questo è il compito giornalistico più semplice. Quello che mi interessa sottolineare è che i cori di tutti gruppi, non solo di quelli più visibili, sono diventati estremamente razzisti e violenti: si sente urlare slogan del tipo: « Che il tuo villaggio possa bruciare!», e «Shoufat a fuoco», quest’ultimo in riferimento a Mohammad Abu Khdeir, il giovane palestinese di Shoufat che il 2 luglio 2014 fu rapito e bruciato vivo da tre estremisti israeliani, la memoria di Mohammad arde ancora tra i palestinesi, soprattutto tra i suoi coetanei di Gerusalemme.
La guerra in corso ha contribuito in maniera sostanziale alla radicalizzazione dei giovani palestinesi. Molti dei miei coetanei di Gerusalemme non riconoscono più la speranza nel dialogo con gli israeliani, e sperano ancora, ma ci credono sempre meno, in un aiuto europeo. Tutto invece ci si aspetta da questo governo: «A Gerusalemme nelle ultime settimane girava voce che quest’anno sarebbe stato Benjamin Netanyahu in persona a presentarsi ad Al Aqsa, in quello che verrebbe considerato come il punto di rottura definitivo. Cosa ne pensi?». Risponde Hasson: «Non credo lo farebbe e non mi aspetto che accada, ma non mi sorprenderebbe del tutto se alla fine decidesse di farlo. Al Aqsa rimane il più delicato e simbolico dei luoghi di Gerusalemme. Ma convocare una riunione di gabinetto in un’area tanto problematica come Silwan (quartiere palestinese a sud della Spianata delle Moschee, fuori dalle mura) e poi farsi riprendere in un tunnel della zona è già estremamente provocatorio. Il Netanyahu di oggi non è lo stesso di un anno fa. Concludo chiedendogli dell’atteggiamento europeo nei confronti di Israele. Hasson replica: «Per anni l’Europa ha completamente ignorato i soprusi israeliani, la brutale occupazione militare e i suoi effetti; Israele non ha pagato e continua a non pagare il prezzo di quello che fa ai palestinesi. La destra estrema può essere davvero fermata solo con un esercizio di pressione nei confronti d’Israele: se domani si decidesse di negare i visti d’ingresso in Europa penso che la guerra potrebbe davvero cessare. Solo così cambierebbe qualcosa. Un forte freno degli europei è di essere etichettati come antisemiti: ma sta già accadendo comunque, quindi perché non fare la cosa giusta?»