Chieti, lauree facili: rettore e dg ne vogliono cancellare 411

Oggi Del Vecchio chiede al Senato di retrocedere i dottori in Scienze sociali. Ma il caso-fotocopia dei fisioterapisti che ricorsero al Tar finì con una stangata sulla D’Annunzio
CHIETI. «Non è mai troppo tardi» diceva così il maestro Alberto Manzi nel ’68. Vale per tutti ma non per l’Ateneo che si appresta a votare una delibera ad alto rischio. Il rettore Carmine Di Ilio e il direttore generale, Filippo Del Vecchio, oggi chiederanno al Senato accademico di annullare 411 lauree in Scienze sociali definite “facili”. Sono lauree triennali rilasciate dall’Ateneo tra il 2000 e il 2007 «non valide», sostengono dg e rettore, «perché risultate dalla conversione di titoli privi di valore legale».
I due si basano su una nota del Miur del 20 aprile secondo il quale il Social College di Fermo, che rilasciò il titolo di assistente sociale ai 411 studenti per la riconversione creditizia, non era abilitato a farlo.
Nella delibera oggi in approvazione si sostiene quindi che ai 411 dottori vennero riconosciuti d’ufficio 130 crediti formativi mentre quelli mancanti furono conseguiti con 8 esami sostenuti in un solo giorno. Per l’Ateneo queste lauree devono essere annullate. Ma è possibile riscontrare un risvolto penale? E può l’Ateneo agire in autotutela retrocedendo il piccolo esercito di dottori?
Le risposte sono sostanziali per le responsabilità a cui oggi vanno incontro i senatori. Alla prima domanda ha già risposto al dg il procuratore di Fermo: ammesso e non concesso che ci siano, i reati sono ormai prescritti o depenalizzati. Sull’annullamento delle lauree invece si apre un discorso ben più rischioso per l’Ateneo che, visto un precedente identico, potrebbe ritrovarsi a pagare non meno di mezzo milione di spese legali. Tre anni fa infatti il Tar accolse i ricorsi di 100 fisioterapisti che, con un decreto del rettore, si videro azzerare le lauree e mettere a rischio attività lavorative già avviate da anni. Come nel caso odierno, al centro di quella vicenda c’era la frequentazione di un corso per ottenere un diploma, in quel caso di massofisioterapista in un istituto di Cosenza, che consentiva la riconversione di crediti e la laurea. Parliamo nel 2005: anche gli anni coincidono.
Ma per i fisioterapisti già nel 2009 l’università comunicò di voler annullare quelle lauree. Così il 4 aprile 2012, con un decreto, il rettore cancellò le immatricolazioni al corso di laurea in fisioterapia, la carriera universitaria e l’eventuale titolo di studio conseguito. Fu un colpo di spugna, scrisse allora il Centro, ma i cento dottori presentarono ricorsi al Tar Pescara puntando sul fatto che «Il provvedimento era stato adottato dall’università a distanza di un notevole lasso di tempo dal conseguimento della laurea e dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, senza che fossero stati svolti atti istruttori o a carattere intermedio. Inoltre, non erano state indicate le ragioni di interesse pubblico all’annullamento e non era stata effettuata un’adeguata comparazione tra lo stesso interesse pubblico e quello degli universitari».
I Tar accolse in blocco i ricorsi. Scrisse infatti il giudice Michele Eliantonio che: «Tra i principi generali dell’attività amministrativa, è ricompreso anche quello della ragionevole durata del procedimento che, una volta avviato, deve concludersi entro un termine ragionevole, trascorso il quale deve considerarsi come abbandonato. Nel caso di specie, la laurea triennale è stata conseguita nel 2005 e l’università solo nel 2012 ha disposto l’impugnato annullamento d’ufficio dell’immatricolazione».
Se provassimo a fare un parallelo con la vicenda di Scienze sociali, ci troveremmo di fronte a un ritardo persino più consistente. Ma tocca al Senato accademico riflettere su questo punto. Oggi, come allora, l’ateneo esercita un cosiddetto «potere di autotutela». Ma già nel 2013 il collegio presieduto da Eliantonio (e composto anche da Dino Nazzaro e Massimiliano Balloriani), tacciò l’università di averlo fatto: «Dopo che il procedimento si era ormai estinto e a distanza di un periodo di tempo - 7 anni dal conseguimento del titolo di studio – che non può ritenersi ragionevole in relazione agli accertamenti istruttori che si sarebbero dovuti svolgere». Per di più, spiegarono i giudici, per esercitare il potere d’annullamento d’ufficio «occorre dare adeguatamente conto della sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto o alla cessazione dei suoi effetti». Che non c’era perché l’università non effettuò neppure la «ponderazione degli interessi coinvolti, pubblici e privati, considerando per un verso la particolare posizione dei ricorrenti che da anni svolgono un’attività lavorativa che presuppone il possesso della laurea, e per altro verso che era ormai decorso un periodo di tempo rilevantissimo dal conseguimento di quest’ultima». Ma la storia può ripetersi.