I terroristi neri volevano uccidere anche Gianni Letta

A svelarlo è uno dei carabinieri del Ros infiltrato nel gruppo: ecco la sua testimonianza. E spunta il piano di uno degli eversivi per sciogliere i binari ferroviari e far deragliare i treni
CHIETI. C’era anche Gianni Letta nel mirino di Avanguardia Ordinovista, il gruppo terroristico nero con base in Abruzzo che riversava odio sui social network ed era pronto a passare all’azione per ammazzare immigrati e politici. A svelarlo – nel corso del processo davanti alla Corte d’assise di Chieti, terminato con dieci condanne a 75 anni complessivi di carcere – è stato Piero Mastrantonio, che è il nome in codice dell’agente sotto copertura infiltrato nella banda che venerava Adolf Hitler e Benito Mussolini al punto da dedicare loro un altare celebrativo con tanto di svastiche e fasci littori.
È riportato in sentenza il passaggio della testimonianza con cui il carabiniere del Ros riferisce in aula che al centro delle pesanti minacce dei neofascisti non erano finiti solo l’allora presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini e l’allora ministro Cécile Kyenge, i cui nomi erano già venuti fuori ai tempi degli arresti scattati nel dicembre 2014, ma anche l’avezzanese Gianni Letta, il grande stratega del potere, direttore d’orchestra invisibile della macchina dello Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri con Silvio Berlusconi in quattro governi del centrodestra, oltre che uomo di estrema fiducia del Cavaliere.
Si legge, testualmente, a pagina 59 delle motivazioni: «Continui sono i riferimenti alla necessità di passare all’azione violenta anche nei numerosi post pubblicati da Stefano Manni (il capo di Avanguardia Ordinovista, ndr) su Facebook seguiti, sempre, da numerosi commenti di approvazione pubblicati dai membri dell’associazione, i quali, in tal modo, comunicavano la propria piena adesione alle azioni proposte.
Ha riferito, a tal riguardo, il teste Mastrantonio (operativo su Facebook con il profilo denominato “Vertice Nero”): “Manni aveva una modalità che praticamente quando inseriva il post inseriva anche il soggetto a cui questa notifica doveva arrivare, quindi diciamo che poi, alla fine, nei post inseriti dal Manni comunque si susseguivano delle discussioni sul fenomeno che si stava vivendo, tipo sull’immigrazione, sul fatto che era un continuo di sbarchi, stupri, sempre a sfondo xenofobo e razziale; oppure contro la casta, c’erano delle minacce, si promuovevano attività, diciamo, violente nei confronti dei politici, quindi, come ho detto prima, da Laura Boldrini alla Kyenge, a Gianni Letta e quant’altri”».
Dunque, non solo i deputati Nazario Pagano di Forza Italia e Stefania Pezzopane (ora ex) del Pd, i cui nomi fanno parte di una “lista rossa” trovata a casa di uno degli imputati: un bersaglio dei terroristi della porta accanto era anche il politico di origini marsicane che, con la sua abilità nella mediazione, ha attraversato gran parte della storia recente del Paese, a partire dalla Prima Repubblica.
Le motivazioni della sentenza depositata una settimana fa (presidente Guido Campli, giudice estensore Maurizio Sacco) svelano anche le modalità violente degli attentati rimasti «nello stadio di mera programmazione», scrive la procura dell’Aquila, «per circostanze estranee alla volontà degli imputati, ossia perché, prima che potessero portare avanti i loro piani criminosi/eversivi, il 22 dicembre 2014 i vertici di Avanguardia Ordinovista venivano sottoposti a misure cautelari personali». Gli estremisti neri, osservano i giudici, vedevano «una priorità il passaggio all’azione violenta, vista come unica via per liberarsi di un sistema ritenuto troppo compromesso». Uno dei più attivi, in questo senso, è l’imputato Luca Infantino che, «oltre a interloquire frequentemente con Manni per l’organizzazione dei vari colpi, è a sua volta ideatore di alcuni progetti, come l’idea di utilizzare della termite auto-prodotta per sciogliere i binari ferroviari e far deragliare i treni, o, ancora, quella di lasciare uno zaino contenente dell’esplosivo all’interno di una metropolitana». E qui spunta la cosiddetta “teoria del doppio zaino”, «in quanto, al fine di non destare sospetti, consapevole della presenza di numerose telecamere all’interno delle stazioni metropolitane, il soggetto si proponeva di utilizzare due zaini identici, l’uno contenente esplosivo da lasciare nel vagone, l’altro, vuoto, da portare con sé, in modo da “ingannare” così un futuro controllo».
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