La famiglia nel bosco e quella fuga di un anno fa: «Vogliono toglierci i figli»

Così mamma Catherine scappò con i tre bimbi temendo che venisse separata da loro. Il ritorno a Palmoli dopo l’interlocuzione: «Se li portate via, il trauma durerà tutta la vita»
PALMOLI . Un anno prima che assistenti sociali e carabinieri salissero nella casa del bosco di Palmoli per eseguire l’ordinanza del tribunale, il destino che oggi si è compiuto era già stato scritto. Non in una sentenza, ma nella paura lucida e disperata di una madre. Era il novembre del 2024 quando l’abitazione di contrada Mondola si svuotò improvvisamente, lasciando dietro di sé un silenzio carico di presagi. Catherine Birmingham aveva tentato di fermare il tempo, di scappare da un futuro che sentiva arrivare con il passo pesante della burocrazia. Per settimane, Nathan Trevallion era rimasto solo a presidiare quel pezzo di terra, mentre la moglie e i tre figli erano svaniti nel nulla, protagonisti di una latitanza emotiva fondata su una convinzione che oggi, alla luce dei fatti, suona come una terribile premonizione: «Vogliono toglierceli».
Le tracce di quella disperata “evasione” sono rimaste imprigionate in un fascicolo giudiziario, una serie di rapporti e comunicazioni che raccontano il prologo dell’epilogo attuale. Tutto ha inizio quando i servizi sociali e i carabinieri, il 13 novembre 2024, bussano alla porta della famiglia. L’obiettivo è verificare le condizioni dei minori, ma trovano solo stanze vuote e un padre che cerca di guadagnare tempo. Nathan, contattato telefonicamente dai militari, mente. Riferisce che «la moglie e i figli sono rientrati in Inghilterra», mentre lui è rimasto in Italia, domiciliato in una roulotte, per «risolvere la situazione».
Non è vero. Catherine non ha attraversato la Manica. È nascosta, terrorizzata, convinta che restare significhi perdere tutto. È lei stessa a rompere il silenzio pochi giorni dopo, il 17 novembre, con una mail inviata alla casella di posta istituzionale della stazione dei carabinieri. Le sue parole sono un atto di accusa e, insieme, una dichiarazione di protezione assoluta. «Purtroppo con la situazione così com’è e la minaccia che ci portino via i nostri figli, da parte dei servizi sociali, non riveleremo assolutamente la loro posizione», scrive la donna. Catherine spiega alle autorità che i bambini sono «al sicuro, più felici con amici e familiari», e sebbene manchi loro terribilmente il padre e la loro casa, la priorità è evitare quello che lei definisce con parole che oggi pesano come macigni: «Un trauma di essere lontani da noi che durerà per tutta la vita». La madre pone una condizione non negoziabile per il suo ritorno: «Fino a quando non avrò la conferma scritta che i nostri figli non saranno allontanati da noi o costretti a scuola, dal giudice, non tornerò né rivelerò la nostra posizione. La loro sicurezza è della massima importanza».
Le motivazioni profonde di questa fuga vengono dettagliate in una successiva, drammatica comunicazione inviata alla procura per i minorenni il 13 dicembre 2024. In quella lettera, Catherine ricostruisce la cronologia della paura, svelando un clima di assedio che la famiglia percepiva da tempo. Cita un incontro avvenuto il 4 ottobre con l’assistente sociale e, soprattutto, una confidenza ricevuta dal sindaco il 7 ottobre: «In via confidenziale ci ha comunicato che era intenzione dei servizi sociali portare via i bambini se non fossero stati regolarmente iscritti a scuola. Ci ha detto che lo stava facendo per proteggere i nostri figli». Ma l’angoscia diventa panico puro quando arriva un messaggio, riferito attraverso una terza persona di nome Sabine, che la famiglia attribuisce all’assistente sociale. «Ci ha chiaramente detto di non rientrare in Italia fino a quando i bambini non fossero stati maggiorenni perché i servizi sociali li avrebbero portati via perché eravamo stati dichiarati “unfit parents”, genitori inadatti». Di fronte a quell’etichetta, «genitori inadatti», Catherine fa l’unica cosa che il suo istinto le suggerisce: prende i bambini e scappa, cercando di sottrarli a un ingranaggio che percepisce come ostile.
Nella sua difesa, Catherine tocca anche il tasto dolente dell’istruzione, uno dei pilastri su cui si fondano le accuse odierne. Racconta il malessere della figlia maggiore, dopo il ricovero in ospedale e lo stress vissuto in città. «Provava paura e ansia di essere costretta ad andare a scuola», scrive la madre, descrivendo la percezione della bambina: «Sentiva che era troppo rumorosa, di essere separata dai suoi genitori e fratelli e di stare con altre persone che non conosceva e di cui non si fidava». Una visione confermata, secondo Catherine, anche da un confronto con una certa «maestra Filomena a Palmoli», che avrebbe convenuto sul disagio della piccola. Mentre la madre è altrove, Nathan rimane a Palmoli a giocare al gatto e al topo con le istituzioni.
I carabinieri e la polizia di Stato cercano di localizzare i minori. Il 19 novembre, accertamenti nelle banche dati fanno emergere un possibile indirizzo a Torano Nuovo, in provincia di Teramo, ma il sopralluogo rivela che l’abitazione è occupata da un’altra famiglia e che dei Trevallion «non v’era più traccia nella zona ormai da tempo».
La pressione sale. Il 4 dicembre viene contattato un legale incaricato dalla famiglia, che riferisce di aver parlato con il padre e scritto alla madre per spiegare «l’opportunità di non nascondersi alle istituzioni ed anzi di rendersi reperibili», ma il suo consiglio rimane inascoltato. Due giorni dopo, il 6 dicembre, i carabinieri contattano nuovamente Nathan. Lui non si nasconde, risponde al telefono, si fa trovare di persona, ma continua a proteggere il segreto della moglie. Riferisce che i familiari «si trovavano in Germania e che non avevano intenzione di farsi trovare per il timore di un intervento delle istituzioni».
In quelle settimane di “latitanza”, Catherine cerca anche di difendere la dignità della loro casa, quella stessa abitazione che oggi viene descritta come un rudere invivibile. «Vorrei confermare che quando siamo arrivati per la prima volta a Palmoli la casa in cui abbiamo vissuto era nelle stesse condizioni», scrive il 17 novembre, citando una visita del sindaco che, a suo dire, li aveva rassicurati: «Quando gli abbiamo chiesto se la casa era vivibile ha detto “Sì, conosco questa casa, va bene. Risolvi i problemi di drenaggio e andrà tutto bene”». Eppure, nota con amarezza, ora «abbiamo avuto un geometra che ci ha detto che la casa è “irreparabile”».
Poi, qualcosa cambia. O, forse, il desiderio di normalità e di unione familiare diventa più forte della paura. È il giorno di Natale del 2024, un mercoledì. Alle 19.16, Catherine invia una mail alla polizia, indirizzata a un sostituto commissario che segue la vicenda. Il tono è collaborativo, quasi di resa. «Sì, siamo felici di avere la persona che ritenete più adatta affinché lo stato di benessere psico fisico dei bimbi venga valutato», scrive.
Rivela finalmente dove si trova, smentendo le piste inglesi o tedesche fornite dal marito. «Io e i bambini siamo attualmente nella provincia di Bologna con un’amica affinché possano trascorrere del tempo con il loro papà per Natale». Fornisce l’indirizzo esatto: Valsamoggia, Bologna. Chiede solo, con gentilezza, di sapere chi verrà a controllarli – «Verranno i carabinieri/servizi sociali o la polizia locale?» – e di poter organizzare la visita in un orario definito per essere presenti.
La famiglia torna. Catherine rientra in quella casa che le era stato detto di abbandonare, forse sperando che la trasparenza, la disponibilità a far visitare i bambini, la dimostrazione che stavano bene, potesse bastare a placare la macchina amministrativa. Sperava che quel Natale insieme non fosse l’ultimo da persone “libere” nella loro terra.
Esattamente un anno dopo, quella fuga appare sotto una luce diversa. Come un disperato tentativo di protezione materna. Catherine aveva visto giusto. La minaccia che aleggiava nei messaggi, nelle confidenze, nel non detto della burocrazia, è diventata realtà. I bambini sono stati portati via. Quel trauma «che durerà per tutta la vita», quello spettro che lei aveva cercato di esorcizzare scappando via, si è materializzato a Palmoli, proprio sotto quel tetto che avevano difeso con i denti. E oggi, rileggere quelle mail in cui chiedeva solo la certezza che i figli non le sarebbero stati strappati, fa male più di qualsiasi provvedimento giudiziario.
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