L’intervista all’ex prefetto Della Cioppa: «La politica non è un palco ma una responsabilità»

L’astensionismo «è la risposta più lucida che l’elettore abbia trovato per dire che non crede più in chi parla senza agire: non si allontana per pigrizia, ma per nausea»
CHIETI. Si intitola C’era una volta il vero senso della politica ed è il terzo libro di Mario Della Cioppa, poliziotto (come lui sottolinea) che da questore pescarese di importanti città come Foggia, Catania e Roma e poi da prefetto di Chieti ha concluso da un anno una carriera sul fronte della criminalità e all’apice dell’amministrazione pubblica. Riprendendo una vena aperta con i primi due libri – C’era una volta il questore scritto con il collega Maurizio Ficarra e L’ultimo avamposto – Della Cioppa questa volta si tuffa nei meandri della politica da lui conosciuta restando dall’altra parte. Rilevando problemi, ritrosie, consuetudini vissute (e subite) personalmente e proponendo un’analisi costruttiva. Si parte dunque da qui, dalla politica per confluire nell’informazione, nel ruolo della magistratura e nella responsabilità sociale che oggi latita.
Dottor Della Cioppa, nel suo libro lei parla di una “politica perduta” ma senza nostalgia sterile. Cosa l’ha spinta davvero a scriverlo?
«L’urgenza. Non quella di giudicare, ma di ricordare. Ho servito lo Stato per quarant’anni e ho visto la politica smarrire il suo baricentro: da missione collettiva a mestiere personale. Ho sentito il bisogno di dire che la politica non è un palco ma una responsabilità. E che se non torniamo a darle un senso etico, non c’è riforma che tenga».
Nella prefazione al suo libro, una figura di altissimo profilo istituzionale ha condiviso e sottolineato molte delle sue riflessioni. Che valore attribuisce a quel riconoscimento?
«Immenso, perché viene da una persona che ha attraversato le istituzioni più complesse mantenendo sempre misura, equilibrio e coerenza. Non è un elogio ma un segno di consonanza ideale. Quando qualcuno come Franco Gabrielli – che ha servito lo Stato con disciplina, onore e grande lucidità – riconosce la necessità di tornare a un senso autentico della politica e del servizio, significa che la direzione tracciata è quella giusta. È un gesto di responsabilità civile, non una sponsorizzazione. E per me, che ho vissuto lo Stato dall’interno, vale più di qualsiasi premio».
Lei distingue tra la politica di ieri e quella di oggi, pur riconoscendo le contraddizioni del passato. Cosa aveva quella di un tempo che oggi manca?
«Aveva caratura. Aveva figure imperfette, certo, ma formate: uomini e donne che conoscevano la fatica della gavetta, la complessità dei dossier, il valore del confronto. Oggi prevale la semplificazione, lo slogan di dieci secondi. Parlano in fretta perché non hanno contenuto da difendere. E il dramma è che non se ne accorgono nemmeno perché subito dopo corrono a verificare lo share di quel misero intervento».
Lei parla apertamente di ipocrisia quando si denuncia il clientelismo. Perché?
«Perché oggi si predica la trasparenza e si pratica la raccomandazione in modo ancora più subdolo. Si è passati dalla “spintarella” dichiarata alla cooptazione mascherata. Il risultato non cambia: il merito soccombe e chi ha talento se ne va. È la nostra vera fuga dei cervelli, non verso l’estero ma verso il disincanto».
Il suo libro tocca anche la strumentalizzazione delle Forze di Polizia e la contrapposizione con la magistratura.
«È un veleno che si insinua piano. Ogni volta che la politica usa la sicurezza come terreno di scontro, perde credibilità. Polizia e magistratura devono essere autonome, non armi di propaganda. Quando si piegano ai partiti, si spezza la fiducia del cittadino nello Stato. E quella, una volta persa, non la ricostruisci con un decreto».
Lei risalta scelte ai vertici fatte più per opportunismo che per merito.
«Non voglio generalizzare, ma ciò che lei dice è un fatto, non un’accusa. Troppe nomine nascono per bilanciare equilibri di potere, non per scegliere i migliori. È un meccanismo che scoraggia chi studia, chi si impegna, chi ha una visione. E produce mediocrità sistemica. Perché chi teme il merito, prima o poi si circonda di chi non può metterlo in discussione».
Nel libro parla di una “non adeguata consapevolezza del ruolo” dei rappresentanti pubblici. Cosa intende?
«Che molti non hanno idea di cosa significhi rappresentare una collettività. Scambiano il mandato politico per un trampolino personale. Non hanno basi culturali, non hanno un’etica di servizio. E senza cultura e responsabilità civile, la politica diventa un teatro di improvvisazione».
Lei evoca spesso l’assenza di una “scuola della politica”. È un concetto che sembra antico ma suona attualissimo.
«Perché è la radice di tutto. Una volta la gavetta formava: sezioni, dibattiti, studio, confronto con la realtà. Oggi basta un microfono, una certa capacità di retorica e un profilo social. Il pressapochismo genera slogan, e gli slogan generano illusioni. Ma senza formazione, il potere è un giocattolo pericoloso».
Dottor Della Cioppa, dopo un libro così diretto e una carriera di altissimo livello nelle istituzioni, qualcuno potrebbe pensare che voglia proporsi per scendere in politica. È così?
«No, e lo escludo in modo assoluto. Chi ha percorso una vita intera nei ruoli tecnici, amministrativi e organizzativi dello Stato – come nel mio caso – ha maturato competenza, certo, ma non quella formazione politica che si costruisce da giovani, con la gavetta, lo studio e il confronto quotidiano. A sessant’anni non si diventa politici, si resta servitori dello Stato. La politica è un’arte che va imparata presto, non improvvisata tardi. Le eccezioni esistono ma si contano su una mano sola ed io non sono fra quelle».
Lei è stato Prefetto e Questore in città come Roma, Catania e Foggia. Nel suo libro è molto severo: davvero tutta la politica di oggi è così compromessa o esistono margini per recuperare qualcosa di buono?
«Io non faccio distinzioni di colore politico: mi limito a osservare ciò che ho vissuto in quarant’anni di servizio, con responsabilità sempre crescenti. Ho visto, giorno dopo giorno, la metamorfosi qualitativa della politica: la trasformazione di una classe dirigente capace in una classe dirigente spesso improvvisata. È questo processo che ha generato il malessere collettivo e l’astensionismo sempre più marcato oltre alla fuga dei cervelli sempre più evidente, di cui tutti si lamentano ma nessuno fa nulla per fermarla. Ma nulla è irrimediabile: servono esempi concreti di coerenza, di sobrietà, di misura, persone che non cercano i riflettori ma che sappiano guidare con equilibrio e dignità, soprattutto nei momenti più complessi, come accade, per fortuna, con la presenza costante di Presidenti della Repubblica straordinari, autentici garanti della nostra coscienza civile – che consentono di poter ancora cullare la fiducia e la speranza per il futuro, soprattutto verso i giovani, che in molti casi si mostrano migliori di noi, e che meritano esempi veri, non spettacoli mediatici».
Nel libro lei accenna anche al ruolo dell’informazione. Quanto pesa la responsabilità dei media nel quadro che descrive?
«Pesa molto, più di quanto si ammetta. L’informazione, in parte, è diventata cassa di risonanza della politica invece che coscienza critica. Troppo spesso rincorre la notizia, non la verità. Ha abdicato al compito di approfondire, preferendo la velocità e la contrapposizione. Quando il racconto politico si riduce a slogan e il giornalismo si limita a rilanciarli, si tradisce la funzione educativa e culturale della comunicazione. E senza informazione libera e coraggiosa, la democrazia si indebolisce in silenzio».
E intanto cresce l’astensionismo…
«Sì, ed è la risposta più lucida che l’elettore abbia trovato: non crede più in chi parla senza agire. La gente non si allontana dalla politica per pigrizia ma per nausea. Si sente presa in giro da promesse irrealizzabili e conflitti teatrali. Non è disinteresse: è una forma estrema di difesa».
Se dovesse indicare una via d’uscita, da dove ripartirebbe?
«Dalla selezione della classe dirigente, tecnica e politica. Le scelte di chi guida le istituzioni devono tornare ancorate a parametri oggettivi, non alla convenienza della maggioranza di turno. Finché la discrezionalità politica resterà così ampia come lo è nel nostro sistema, la competenza resterà un optional. E continueremo a confondere la fedeltà con la capacità».
In fondo, il suo libro sembra dire che la Politica, quella vera, non è morta. È solo dimenticata.
«Esatto. La Politica con la “P” maiuscola non è un ricordo, è una possibilità. Ma serve coraggio per praticarla: quello di dire no al consenso facile, di ammettere i propri limiti, di pensare al Paese e non al proprio partito. Se torneremo a farlo, anche solo in pochi, allora forse tornerà ad avere un senso perfino la parola futuro».
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