L’intervista a Odoardi: «Il mio film sul sequestro Vinci: storia di liberazione»

Il rapimento brutale impressionò la Sardegna e l’Italia. Il regista da domani presenta l’opera nelle sale abruzzesi
Un sequestro brutale, durato 310 giorni. Il rapimento in Sardegna nel dicembre 1994 del trentenne Giuseppe Vinci da parte dell’Anonima Sequestri impressionò l’Italia, per la durata e per le condizioni in cui fu costretto il giovane, rinchiuso tutto il tempo in un angusto box di compensato.
La vicenda è diventata il film Storia di un riscatto, scritto e diretto da Stefano Odoardi (classe 1967, nato a Pescara e cresciuto a Lanciano), pluripremiato filmmaker e artista visivo, formazione e lavoro tra Italia e Olanda, autore tra molte cose della trilogia in fieri Mancanza, il cui primo capitolo Inferno (2014) fu ambientato tra le rovine aquilane del sisma. Da qualche giorno è stata inaugurata a Milano nella galleria TheWarehouse la sua mostra Mancanza-Paradiso, sceneggiatura visiva del terzo e conclusivo film: 25 fotografie immergono il visitatore nel paradiso contemplativo dell’artista, seguendo i passi dell’Angelo protagonista della trilogia cinematografica, nonché musa, Angélique Cavallari, in contemplazione mistica della Bellezza in templi dell'arte come Van Gogh Museum e Rijksmuseum di Amsterdam. Inoltre, il 15 novembre l’autore abruzzese ha presentato con grande successo il secondo capitolo Mancanza-Purgatorio al cinema Panthéon di Parigi, il più antico di Francia.
I simboli hanno valore nelle creazioni di Stefano Odoardi, che ha scelto lo scorso 15 ottobre, trent’anni esatti dalla liberazione di Giuseppe Vinci, come data per l’uscita in sala di Storia di un riscatto. Il film, prodotto da Superotto Film Production, viene accompagnato nei cinema da Odoardi e Vinci, che nel film interpreta due ruoli, se stesso oggi e il padre Lucio (proprietario di una catena di supermercati) all’epoca del sequestro, mentre il giovane Giuseppe è impersonato da Andrea Nicolò Staffa. Questa settimana il film è proiettato in Abruzzo e Odoardi e Vinci partecipano a quattro serate: domani al CiakCity di Rocca San Giovanni (ore 21), il 27 a L’Aquila (cineteatro Zeta alle 18) insieme allo storico del cinema Piercesare Stagni, il 28 Avezzano (Astra, ore 21), il 29 Pescara (Sant’Andrea, ore 21).
Odoardi, com’è nata l’idea di un film sul sequestro Vinci?
«Con Giuseppe Vinci ho un legame di parentela, mio nonno materno Giuseppe era sardo, la madre di Giuseppe era una nipote di mio nonno. Quando lui fu rapito mia madre si sentiva spesso con la sua famiglia sarda e con la mamma di Giuseppe e io ho seguito questo rapimento da casa. La storia mi è rimasta dentro a lungo. Nel 2016 sono andato in Sardegna a girare Purgatorio e finalmente ho conosciuto la mia famiglia sarda e Giuseppe Vinci. Lì i legami di parentela sono fondamentali e molto sentiti. Ho deciso di usare il mio linguaggio anche per fare giustizia e rimettere un po’ di cose a posto in questa storia».
Cosa andava rimesso a posto?
«Quando ho conosciuto Giuseppe è venuta fuori una persona gentile, umana, ancora rinchiusa in una scatola di compensato, nella segregazione brutale che aveva subìto. Volevo aiutarlo a liberarsi. Il film è la storia di un riscatto inteso non solo come la somma pagata dai familiari per riaverlo ma soprattutto nel senso di riscatto di un uomo attraverso il cinema».
La presenza di Vinci nel film come è stata decisa?
«L’ho proposta io e proprio in questa ottica di liberazione. Quando interpreta suo padre Lucio, che si batte disperatamente per liberare il figlio, in fondo libera se stesso. Ho girato la prigionia in interni e in esterni la seconda fase, quando la famiglia fa di tutto per liberarlo e lo Stato ha un comportamento vergognoso (i Vinci dovettero pure pagare le tasse sui quattro miliardi e 250 milioni di lire pagati all’Anonima, con conseguente chiusura dell’attività, ndc). Per la seconda fase, girata dopo due mesi, ho pensato di affidare a Giuseppe il ruolo del padre, mi sono reso conto che era un percorso in più che doveva fare. Nella prima fase lui era stato presente alle riprese per darci indicazioni, e lì vivi la crudeltà della sua prigionia, un’esperienza sconvolgente, in cui vedi la crudeltà di un essere umano verso un altro. Inizialmente ha avuto dei dubbi, ma poi ha capito il senso e si è convinto a interpretare il film».
Un’operazione catartica.
«Esattamente. In fondo lui non doveva recitare ma liberarsi, è stata un’operazione artistica e umana e non solo un film. Un lavoro che prosegue in tutte le presentazioni che facciamo insieme»
Il film ha debuttato in Sardegna, dove continua a essere proiettato in molti cinema. Che reazioni e sentimenti ha colto nel pubblico?
«Il film suscita senso di colpa, rabbia, commozione, sdegno, la potenza del cinema sortisce un effetto diverso dalle sole parole. Si chiedono: com’è possibile che noi sardi abbiamo potuto accettare una cosa del genere? Ma una reazione ci fu anche all’epoca del sequestro, per la prima volta il popolo sardo scese in piazza contro l’Anonima Sequestri. La moglie di Giuseppe, la venezuelana Sharon, riuscì a coinvolgere la stampa e la gente. Con un bimbo di un anno e mezzo, lei ebbe il coraggio e la forza di organizzare manifestazioni, dimostrando che la solidarietà può cambiare lo stato delle cose»
Oltre che filmmaker lei è artista visivo e questo si sente nel suo cinema fin dai primi cortometraggi. Ha sempre lavorato su diversi linguaggi e il suo è un cinema d’arte e ricerca. Come si sposa tutto questo a una storia di cronaca?
«È un approccio poetico e umano al sociale, non racconto mai solo il fatto di cronaca, e questo si sposa molto al mio essere artista, cambio linguaggio ma i temi che tratto sono gli stessi. Ci sono passaggi metafisici anche in questo film, l’impianto visivo è molto contemporaneo. Il linguaggio artistico del mio cinema rimane intatto, è una ricerca continua».
A Milano è in corso la sua mostra “Mancanza-Paradiso”, si può considerare la fase iniziale dell’ultimo film della trilogia? «In ogni film della trilogia mi sono ispirato a una forma artistica, il disegno, l’acquerello, ora in Paradiso l’istante della fotografia. Sto girando il film nei musei più importanti del mondo, ho iniziato da Amsterdam. Figura ricorrente è l’Angelo visionario di Angélique Cavallari che si confronta con gli umani che hanno sublimato l’umano attraverso l’arte, qui Van Gogh, Vermeer, Rembrandt. In questa azione lei cerca di trasmettere lo stato di felicità. Anche questo è un esperimento»
Dottorato nelle arti alla DasArts di Amsterdam, ha vissuto tra Italia e Olanda, dove ha fondato la sua casa di produzione. Ad Amsterdam ha girato il primo lungometraggio “Una ballata bianca”. In Olanda trova un’attenzione diversa al cinema d’arte, al cinema non commerciale?
«C’è un’attenzione diversa a tutte le arti, la danza, le arti visive, il cinema semmai lo sentono un po’ meno, a parte il documentario. Viene coltivato il confronto tra artisti che spaziano in diversi linguaggi e questo per me è vitale. In Storia di un riscatto il ruolo principale, Sharon, è dell’argentina Florencia Rolando, artista proveniente dalla scuola di danza di Buenos Aires. Nel film è più performer che attrice, creiamo insieme composizioni performative».

