Pistoletto in mostra a Pescara: «Con l’Abruzzo ho un rapporto antico»

foto del professor Gino Di Paolo
Parla il guru dell’arte povera: «Priorità alla pace preventiva. Solo così si combatte la guerra, con un passo verso l’altro»
PESCARA. A guardarlo bene sembra un personaggio d’altri tempi: barba curata, sguardo curioso, a suo agio mentre sfoggia il suo borsalino nero, avvolto in una sciarpa colorata. Michelangelo Pistoletto, un mito dell’arte contemporanea, non passa inosservato. Da un paio di giorni è a Pescara per il vernissage della mostra sull’arte povera che si è svolto lunedì 24 novembre. A dispetto dei suoi 92 anni, si destreggia tra interviste e performance artistiche con notevole agilità dialettica. Non si sottrae a un gradevole pranzo a base di arrosticini e accetta di buon grado di rispondere alle nostre domande. Parlare con lui è come attraversare l’arte, trovarsi catapultato in un mondo di metafore, visioni, prospettive.
Maestro, la sua arte è in continua evoluzione. Ma esiste un modo di concepire l’arte che le piace più di ogni altro?
«La mia arte è una ricerca continua, a me interessa la conoscenza, l’arte come metodo di conoscenza, quindi la conoscenza è qualcosa che ereditiamo, ma attraverso l’arte rinnoviamo. L’arte è stata sempre una ricerca che ha portato anche poi a tutte quelle che sono le realtà della vita comune create dagli esseri umani. La mia stessa arte è diventata sempre più dinamica, capace di tenere insieme tutti i settori che appartengono alla vita sociale. Meno inquadrabile di un tempo, si è trasformata in un sistema, che mi dà la possibilità di impegnarmi in maniera creativa come non mai».
Lei ha fondato Cittadellarte a Biella, ritiene che l’idea di una fucina di talenti trasversali come la sua debba essere emulata?
«Io penso che debba essere emulata. Emulare è una bella cosa, però bisogna anche creare, quindi si può sviluppare. Quello che noi facciamo non è un sistema, è un'attività di ricerca che si fa insieme agli studenti e quindi è proprio la possibilità di essere presenti venendo dai Paesi più diversi, dalle più diverse culture. Si riesce a convivere con un bisogno comune che si sviluppa in una creazione che non avviene in quel momento, ma che ciascuno porta con sé come esperienza. E quindi è un'esperienza necessaria, quella di lavorare tra persone che hanno desiderio di creare e non soltanto di creare individualmente, ma stando insieme. E questo vuol dire che non si elimina la creazione personale, ma la si alimenta in modo tale da diventare efficiente ed efficace proprio nel rapporto duale oppure multiplo».
In altre parole?
«Il rapporto multiplo diventa sviluppo individuale e quindi è proprio questa combinazione che nasce dalla formula della creazione dei tre cerchi. È qui che ci sono sempre due elementi che stanno nei due cerchi esterni, che si uniscono e trovano nel cerchio centrale una proposta, la chiamerei opera. È un'opera che non può nascere che dalla dualità. Esiste una dualità in ognuno di noi, ma è favorita dalla dualità tra persone. Quindi questa dualità tra persone alimenta anche la dualità personale.
Quando si parla di arte contemporanea parliamo di un mare magnum di opere, idee, progetti. Come si capisce se un’opera è effettivamente valida?
«L'arte contemporanea è sempre stata contemporanea, e quindi abbiamo vissuto una vicenda nella storia che si è ripetuta sempre. Avendo come protagonisti del pensiero non gli artisti diciamo professionisti, ma le autorità ecclesiastiche, le autorità politiche che hanno dettato dei metodi e delle convenzioni comuni. E poi gli artisti che hanno cercato di rappresentare e comunicare delle volontà, dei pensieri che erano dei sistemi di quello che possiamo chiamare il palazzo».
E con l’arte moderna?
«Con l'arte moderna si passa a un contemporaneo vero e proprio di un momento specifico in cui l'arte si rende autonoma, non si non si mette a servizio, anzi direi proprio che si toglie dal servizio comune dei grandi sistemi esistenti, che siano religiosi, politici o economici. E si avvia e procede verso una ricerca interiore dell'arte stessa. È come quando uno va dallo psicanalista o fa autoanalisi. Ecco, direi che il tutto è un'autoanalisi dell'arte che poi tocca i più diversi ambiti, che sono le correnti: dal cubismo che disintegra al surrealismo che entra nel subconscio notturno del sogno, fino all'espressionismo che cerca di dar senso al vigore dell'impeto, e all'astrattismo che cerca nei segni ciò che non è così evidente».
Argomento complesso.
«Sono tutte le attività di introspezione che io ho chiamato operazioni artistiche del White Cube, all'interno del cubo bianco. Ecco, questo cubo bianco per me ha rappresentato una interruzione di quello che era prospetto rinascimentale di Piero della Francesca e di Alberti».
Come nasce in lei un’idea, un’opera? Cosa la stimola particolarmente? Il contatto con le persone, un colore, un suono, un’immagine?
«C'è una possibilità di immaginare molto ravvicinata, che è quella che io ho scoperto spaccando il quadro specchiante, spaccando lo specchio. Lo specchio spaccato porta la possibilità che ogni frammento sia come una persona che è tanto fisica quanto riflettente, per cui ogni frammento si rispecchia negli altri frammenti e i frammenti sono fisici, ma anche visivi, intellettuali. Quindi è già una società e quindi adesso questa società diventa una società scientificamente trasformata in un universo che possiamo costruire pacificamente oppure con la stessa capacità e la stessa forza distruggere definitivamente. Quindi assumiamo la massima responsabilità. L'arte ci dice “assumete la massima responsabilità”».
Lei ha realizzato il tavolo usato nel G8 dell’Aquila poco dopo il terremoto, ci racconta come è nata l’iniziativa?
«Subito dopo il terremoto fecero il G8 proprio all'Aquila. Ebbene, io all'Aquila avevo pensato che il terremoto fosse veramente un'occasione per unire il disastro naturale al disastro artificiale. Quindi pensare che l'Aquila fosse un possibile luogo di impegno per ricostruire facendo menzione di quella che è la responsabilità non solo di quello che la natura distrugge, ma quello che distrugge l'essere umano».
Ce la fa più semplice?
«È pensare a un luogo dove la natura può essere compagna dell'essere umano. E quindi l'essere umano, compagno di se stesso nel migliorare la sua possibilità di non cadere nei terremoti sociali, era un'occasione straordinaria che non è stata colta molto relativamente».
A 92 anni è sempre in giro per il mondo, è una sorta di globetrotter dell’arte. Tra gli emergenti c’è qualche artista che apprezza particolarmente?
«Eh, preferisco non fare nomi perché in quasi tutti i giovani che ho visto emergere c'è un qualcosa di valido, quindi non c'è nessuno che si metta davanti a un foglio di carta o davanti a una parete o davanti a uno spazio e non sentendo il bisogno di far qualcosa che non vada tenuto in conto. Quindi la creatività è di tutti e io la rispetto».
Che rapporto ha con l’Abruzzo?
«Un rapporto antico: ho avuto a che fare con molte situazioni, dall’installazione nel tribunale di Pescara al Fuori uso all’Aurum» (l'artista distrusse uno specchio in un atto di performance artistica che, in quel caso, ha reso l'opera "fuori uso" o, più precisamente, le ha dato una nuova e differente esistenza attraverso l'azione performativa, ndr).
Qual è il suo rapporto con la religione?
«La religione è una cosa indispensabile perché la religione vuol dire rilegare, vuol dire mettere insieme, vuol dire unire. Quindi proprio la mia formula, la formula della creazione, è la formula che unisce. E questa unione è indispensabile. Le persone hanno bisogno di trovare elementi sui quali intendersi e quindi la religione offre dei simboli, offre degli elementi, offre un pensiero, una guida che permette alla gente di intendersi. Poi, a partire dall'intesa religiosa, le persone continuano a estendere l'intesa poi sulla politica, sull'economia, su tutti quelli che sono gli aspetti della vita sociale. Ma sempre partendo dal concetto di unire, unirsi, essere insieme, operare insieme, creare mondo insieme».
La quarta generazione è un tema che guarda molto al futuro. Cosa ci regaleranno gli anni a venire?
«Io non lo posso dire perché sarei un indovino, non posso dire cosa ci regaleranno. Io vorrei che ci regalassero una pace, una pace che io chiamo la pace preventiva che deve essere organizzata ancora prima di organizzare qualsiasi guerra. Non appena abbiamo fatto un passo verso la guerra, poi non si torna più indietro. Quindi bisogna cominciare a imparare a fare un passo, il primo passo dalla parte opposta, fare il primo passo nell'organizzazione della pratica di tutti i giorni a venire che è quella della pace. Io porto molto fortemente lo sport come esempio».
In che senso?
«Negli sport non si può uccidere, non si può ferire. C'è una legge mondiale dello sport che fa sì che tutti possano competere senza uccidere. Quindi dallo sport si può passare piano piano alla pratica di una legge che può essere simile a quella sportiva ma per la società».
Se io le nominassi Monet, Manet, Gauguin, Toulouse-Lautrec, c'è qualcosa dell'arte classica che l'abbia ispirata? Che giudizio ha dell'arte classica, quella tradizionale?
«Lei mi ha fatto dei nomi degli artisti che non sono più arte classica, sono quelli che hanno rotto con l'arte classica. Perché c'è stata la fotografia, il raggiungimento della fotografia come sviluppo scientifico e quindi la riproduzione. La rappresentazione del reale non ha avuto più bisogno della mano dell'artista, neanche del cervello dell'artista. Per cui gli artisti sono introspettivi, hanno continuato l'arte non più rappresentando, ma inventando, cercando all'interno del pensiero umano, all'interno di ciò che la fotografia non può fare, la liberazione del pensiero verso una espressione che ha fatto sì che l'arte diventasse in qualche maniera di per sé stessa spirituale».
Addirittura spirituale?
«Sì, però questa spiritualità dell'arte moderna si è staccata completamente dal sistema spirituale delle religioni. Io oggi sto cercando di far sì che le due cose, sia la spiritualità dell'arte che quella delle religioni, attraverso il bisogno di rilegare, di mettere insieme, di far sì che l'arte diventi struttura pratica e anima della società, possano lavorare insieme».
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